Il fenomeno del land grabbing, ovvero dell’accaparramento delle terre da parte delle potenze straniere, colpisce principalmente il continente africano ed è in continua e rapida crescita. Secondo alcune stime, sono oltre 35 milioni di ettari di terreno coinvolti. Cifre che pesano sull’autosufficienza alimentare di ogni nazione.
di Angelo Ravasi
In Africa, autosufficienza alimentare e land grabbing non vanno d’accordo. E al di là degli anglicismi questo significa che l’accaparramento delle terre africane da parte di potenze straniere è un vero furto con la complicità di governanti poco attenti, appunto, alla sicurezza alimentare dei loro paesi. Di certo il fenomeno del “furto della terra” ricorda il colonialismo. Non possiamo dimenticare quel periodo della storia dell’Africa e, nonostante l’esaltazione delle indipendenze – giuste – c’è ancora molto da fare perché quelle indipendenze diventino effettive. Ma, viene il dubbio, che i governanti africani non tengano poi molto alla loro indipendenza. Il fenomeno della vendita o della messa in affitto delle terre è funzionale alle potenze straniere che, così, riescono ancora ad avere voce in capitolo sui paesi africani, e ai governanti che accrescono le loro ricchezze. Questi ultimi, certamente, non hanno il problema dell’autosufficienza alimentare.
Il land grabbing non è altro che una rievocazione, magari in scala ridotta e adattata ai tempi, del colonialismo. Poi possiamo anche chiamarlo neocolonialismo e forse è anche peggiore del primo. Le potenze emergenti asiatiche e arabe, che hanno un estremo bisogno di terre coltivabili che forniscano prodotti alimentari o energie alternative – ma in parte il fenomeno riguarda anche le potenze tradizionali, cioè ex coloniali – “comprano”, letteralmente, o affittano per tempi lunghissimi, immensi territori in alcuni stati africani e li dedicano esclusivamente a produzioni per le importazioni nei loro paesi, proprio come si faceva all’epoca del colonialismo. Va da sé che all’utilizzo delle terre si affianca il diritto allo sfruttamento delle risorse correlate – per esempio l’acqua dei fiumi – che vengono così sottratte ai legittimi abitanti di quei luoghi. E non dobbiamo dimenticare che talvolta le terre cedute a condizioni estremamente favorevoli appartengono a nazioni che sono alle prese con un problemino non da poco: l’autosufficienza alimentare. Nonostante ciò i regimi al potere preferiscono cedere larghe fette del proprio territorio – traendone vantaggi personali – piuttosto che impostare una politica agricola e alimentare rivolta all’interno.
Terre “in affitto”
L’Etiopia, per esempio dal 2007 ad oggi, ha “affittato” a investitori stranieri, principalmente indiani e sauditi, oltre tre milioni di ettari delle sue terre – un’area equivalente a Toscana e Umbria messe insieme – rendendole ancora più attraenti grazie a incentivi fiscali e canoni particolarmente bassi (mediamente da 4 a 16 dollari all’anno per ettaro, ma vi sono anche terreni il cui prezzo scende intorno al dollaro). Confisca delle piccole proprietà dei contadini, deforestazione, immense aree destinate a monoculture, prosciugamento delle risorse idriche, riduzione delle terre per il pascolo, impossibilità per le comunità locali di coltivare i prodotti per la loro sussistenza, sono alcune delle conseguenze di questa pratica. In Africa il land grabbing è in continua e rapida crescita e attualmente riguarda, secondo alcune stime, oltre 35 milioni di ettari di terreno – ma c’è chi parla di dimensioni ancora più ampie – in diversi paesi tra cui Mozambico, Tanzania, Congo, Sud Sudan, Kenya, Zambia, Sierra Leone, Ghana, Mali, Senegal. Il 15 per cento di queste terre è occupata da foreste. Chi Sono gli investitori? Il primo è un fondo del Lussemburgo, seguono la Cina, gli Emirati Arabi Uniti, Arabia Saudita, Singapore, gli Stati Uniti, il Regno Unito, il Libano, l’Italia (con investimenti in Liberia e in Repubblica Centrafricana) e Belgio.
Dal 2000 in Africa, come scrive Jeune Afrique, sono stati firmati almeno ottocento contratti. Da allora un centinaio di progetti sono stati abbandonati. Di questi la metà riguardava le coltivazioni di piante come la jatropha, da usare per produrre biocarburanti. Il 92 per cento dei contratti sono stati firmati dai governi africani con aziende private e riguardano colture destinate parzialmente o totalmente all’esportazione.
Una delle giustificazioni avanzate dai governi è la creazione di posti di lavoro assicurata dagli investitori stranieri alle popolazioni locali. In realtà queste sono spesso considerate nulla più che manovalanza a basso costo e pressoché senza diritti. La Cina, poi, si spinge più in là: esporta i suoi contadini. E il Sudafrica non è da meno. Il gigante sudafricano, i cui prodotti agricoli già invadono i mercati dell’Africa Australe, ha avuto in concessione 10 milioni di ettari dal Congo Brazzaville per 99 anni. Il ministero dell’agricoltura congolese ha puntualmente smentito, precisando che si tratta di un “contratto di concessione di trent’anni, che riguarda le vecchie aziende di stato abbandonate”. La sostanza, tuttavia, non cambia. Il Congo Brazzaville è un paese con un enorme potenziale agricolo non sfruttato – solo il 4 per cento delle terre agricole è coltivato – e su cui il governo investe poco o nulla. Solo un esempio. Nel 2010 in occasione dei festeggiamenti per i 50 anni di indipendenza del paese sono stati spesi 35 milioni di euro, mentre la cifra del budget nazionale 2010 per il settore agricolo è stata un decimo, ossia 3,5 milioni di euro. E oggi non è cambiato nulla, anzi la situazione è peggiorata.
Perchè l’Africa?
Perché proprio il continente africano? Per la Banca mondiale, è nell’Africa subsahariana dove si concentra la maggior parte (45 per cento) della terra adatta alla coltivazione non ancora sfruttata. E la caccia è partita. Occorre aggiungere che nel 2050 sulla terra vivranno 10 miliardi di persone. Per sfamarle tutte, secondo la Fao, sarà necessario produrre almeno il 70 per cento di cibo in più. Crescerà esponenzialmente la classe media e, dunque, ci saranno milioni di cinesi e indiani che avranno maggiori disponibilità economiche e consumeranno di più. Ciò vuol dire aumentare gli allevamenti con conseguente necessità di cereali per l’alimentazione degli animali. E dove si va? In Africa. Dove, è vero, la terra non è in vendita, ma può essere “concessa” per 99 anni.
Se la Cina corre, non sono da meno gli stati del Golfo e l’Arabia Saudita, dove la popolazione raggiungerà i 60 milioni di abitanti nel 2030 e le fonti d’acqua sono destinate a finire nel giro di 30 anni. Qui la produzione agricola non è più sostenibile e allora si va in Africa dove tutto è molto più conveniente. L’Arabia Saudita ha festeggiato, nel 2009, il suo primo raccolto di cereali e riso proprio in Etiopia. Tra i più voraci risulta essere la Corea del Sud, quarto produttore di masi al mondo, ha siglato accordi su circa 2,3 milioni di ettari. E la produzione di cibo fa lo stesso percorso delle materie prime, emigra all’estero e serve a sfamare quella parte di mondo più fortunata, lasciando al proprio destino gli africani.
Lo shopping senza regole e con contratti oscuri non risolve i problemi di sicurezza alimentare, figuriamoci quelli dell’occupazione. E, ancora una volta, l’Africa è terra di conquista senza alcuna giustizia.
(Angelo Ravasi)