di Federico Monica
La celebre piattaforma online di affitti brevi in case di privati ha rivoluzionato il modo di viaggiare. Con effetti non sempre benefici, anzi talvolta disastrosi, per il tessuto sociale e culturale delle località turistiche. Airbnb sta ora diffondendosi anche in Africa. Con quali prospettive?
Nel 2018 ad Addis Abeba provai quasi per gioco a consultare sul mio cellulare l’app di Airbnb e inaspettatamente trovai tre risultati sparsi per la città. Oggi, nonostante pandemia, crisi internazionali e un conflitto interno che influisce fortemente su turismo e viaggi, gli appartamenti della capitale presenti sulla piattaforma si contano a decine: da un minimo di 10 euro a notte per una stanza condivisa agli oltre 120 per una villetta intera vicino all’aeroporto internazionale.
L’applicazione ha avuto una parabola simile a quella di tante altre realtà legate al web e ai servizi online: nata come interessante strumento per mettere in contatto i viaggiatori con chi era disposto a condividere una stanza di casa propria, negli anni è diventata un vero e proprio colosso delle prenotazioni online, travisando completamente lo spirito iniziale. Grandi imprese immobiliari fanno incetta di appartamenti, gestendo pacchetti di centinaia di case e fagocitando non solo il settore del turismo fai da te ma arrivando addirittura a trasformare fisicamente interi quartieri. Nelle aree in cui si concentrano le camere presenti sulla piattaforma, infatti, i prezzi degli affitti “tradizionali” salgono presto alle stelle, causando lo spopolamento del quartiere e la contestuale scomparsa di negozi di vicinato o di attività scarsamente interessanti per i turisti. Una situazione che tende ad autoalimentarsi alterando il tessuto sociale ed economico delle aree urbane e che ha costretto alcune città come San Francisco a correre ai ripari, mettendo limiti sul numero di case e pernottamenti che un privato può affittare.
Ora tocca all’Africa, a partire dalle città più grandi e più battute dal turismo internazionale ma non solo: basta fare un giro sulla popolare applicazione per rendersi conto di come ormai siano pochissimi gli angoli del continente non ancora toccati dalla febbre di Airbnb.
A spingere molti è sicuramente la speranza di ottenere qualche guadagno mettendo a disposizione una stanza di casa propria e la tipica ospitalità di molte culture africane. Il rischio è che qualcuno, fiutato l’affare, inizi a fare incetta di appartamenti da affittare sulla piattaforma, impattando su un settore già estremamente delicato nelle città del continente come quello del diritto alla casa.
Difficile dire in che direzione stia evolvendo questo fenomeno e che impatto avrà nel medio-lungo termine. A oggi, l‘unica città africana censita sul portale di monitoraggio Inside Airbnb è Città del Capo. I dati della metropoli sudafricana sembrano in linea con quelli di molte città turistiche in Europa o negli Stati Uniti: un totale di 18.000 sistemazioni offerte (numero analogo a quello di Milano), oltre il 75% delle quali sono interi appartamenti con prezzi medi molto più elevati dei costi di mercato. Anche qui, come nel resto del pianeta, la maggioranza degli host gestisce più case, alcuni addirittura diverse decine.
Scorrendo rapidamente la piattaforma sull’intero continente l’impressione è che la situazione sia a macchia di leopardo, con offerte di stanze condivise nelle zone rurali o nei centri secondari e una maggioranza di imprese immobiliari che gestiscono pacchetti di case nelle grandi città.
“Il turismo è una risorsa formidabile per il futuro dell’Africa”, si sente spesso ripetere citando dati su giri di affari e indotto del settore, ma, come spiega molto bene Sarah Gainsforth nel suo libro Airbnb città merce, non è il turismo ad essere una risorsa, bensì le città, i territori e la cultura. E troppo spesso un turismo indiscriminato e fuori controllo, anziché favorire l’incontro rispettoso con culture diverse e la scoperta di altri mondi, cancella l’identità dei luoghi, banalizzandoli e rendendoli simili l’uno all’altro.
Sarà così anche per le città africane? Visti i numeri sembra difficile, ma in contesti delicati e fragili come alcune città-oasi o in piccole perle come Harar o Ganvié gli effetti di questa deriva potrebbero essere disastrosi. Prima di cliccare “prenota”, pensiamoci due volte.