C’è un ospedale, nel nord dell’Uganda, che cura ogni anno 250mila pazienti e per milioni di persone rappresenta da tempo l’unica speranza di guarigione: è il Saint Mary Lacor Hospital di Gulu, fondato 60 anni fa dal pediatra italiano Piero Corti e dalla chirurga canadese Lucille Teasdale. In questo ospedale, che in tutta l’area è l’unico presidio ospedaliero ad avere un impianto di produzione e distribuzione dell’ossigeno al letto del paziente, è stato deciso di aprire una terapia intensiva dedicata al covid-19. Terapia che – ecco la notizia nella notizia – ha stretto un rapporto di collaborazione intensa seppur digitale con l’ospedale Luigi Sacco di Milano.
Ogni due settimane gli operatori sanitari del Lacor si collegano con l’ospedale Sacco di Milano per condividere dubbi e pratiche sulla gestione della pandemia. Insieme a loro ci sono Dominique Atim Corti, figlia dei fondatori dell’ospedale ugandese e presidente della Fondazione che da 25 anni sostiene il Lacor, e il dottor Andrea Coppadoro, anestesista e rianimatore del San Gerardo di Monza, nonchè volontario della Fondazione Corti. «Poter riunire intorno a un tavolo virtuale specialisti italiani e ugandesi, perché questi ultimi possano arricchirsi dell’esperienza capitalizzata in Italia in questi mesi di pandemia, è un contributo di valore inestimabile per il Lacor e per i suoi pazienti», sottolinea Dominique Atim Corti.
Le questioni affrontate, a cinquemila km di distanza, spaziano dai farmaci da usare in base al quadro clinico alle strategie per superareostacoli imprevisti. Quando cominciare a dare eparina o cortisone e con quali dosi? Fino a quando avvalersi del solo ossigeno e con quali pressioni e flussi? Quando, invece, intubare? Quanti pazienti possono essere gestiti con l’impianto del Lacor? Potrebbe essere utile ampliarlo? «All’inizio c’è voluto un po’ per capire le differenze tra Italia e Uganda», riconosce Janet Adong, laureata in scienze infermieristiche, una delle prime operatrici a rendersi disponibile per lavorare nel reparto Covid del Lacor. Protocolli, risorse, competenze, farmaci e personale a disposizione: è tutto abissalmente diverso. Ma a poco a poco le distanze si sono ridotte e, al di qua e di là del Mediterraneo, si è cominciato a parlare la stessa lingua. «Abbiamo capito, ad esempio, che i risultati migliori si hanno se l’intubazione viene effettuata presto», spiega Janet, «anche se per noi non è così semplice. Con solo un anestesista a disposizione ed esiti di intubazione spesso negativi, di solito lasciamo il paziente il più al lungo possibile solo con ossigeno».
Il solo anestesista è Erick Odwar, responsabile del Dipartimento di Anestesia e Cure Intensive del Lacor Hospital. «Il nostro lavoro ti porta ogni giorno a toccare con mano la fragilità umana. La speranza di sopravvivere, per questi pazienti così malati, è nelle tue mani e questo ti spinge a fare di tutto per assicurarti che abbiano un’altra possibilità. Ci vuole dedizione e impegno», spiega. «Prima dell’arrivo del COVID-19, avevamo una terapia intensiva con otto posti letto che serviva l’intera regione settentrionale ugandese con uno specialista in anestesia e rianimazione, tre tecnici anestesisti (nelle scuole del Lacor è presente un biennio di formazione che diploma una ventina di giovani tecnici anestesisti l’anno, ndr) e nove infermieri che si prendevano cura dei pazienti critici in ventilazione meccanica. Sono pazienti che hanno bisogno di assistenza per ogni attività quotidiana: dall’alimentazione all’igiene. Umiltà, empatia e dedizione sono la chiave. In media, al Lacor, ammettiamo 3-5 pazienti in ventilazione assistita ogni settimana e l’80% di loro sopravvive. Si tratta perlopiù di casi di sepsi, ostruzioni delle vie aeree dovute a un corpo estraneo, morsi di serpente e complicazioni della gravidanza o del parto. La maggior parte dei pazienti ha bisogno di trasfusioni di sangue e, nel caso in cui non sia disponibile nella banca del sangue, il personale stesso lo dona per salvare la vita dei pazienti. Durante la pandemia, siamo stati in grado di mantenere sia operazioni elettive che emergenze, anche se in numero ridotto. Questo è stato possibile grazie alla dedizione del personale e alla mission dell’ospedale: curare il maggior numero di persone al minor costo con le migliori cure».
Lavorare con personale ridotto, dispositivi di protezione inadeguati e pochi strumenti di erogazione dell’ossigeno è comunque una sfida. Il che rende ancor più preziosa la condivisione di esperienze dell’ospedale Sacco. Non è la prima volta che le due istituzioni saniarie collaborano. Nel 2016, il focus era stato ebola. Il progetto ENDORSE (Enhancing individual and institutional infectious Disease Outbreaks ResponSe capacities of healthcare professionals to mitigate infectious Emergencies in Northern Uganda region) ha formato oltre 160 operatori sanitari di 9 ospedali ugandesi tra cui il Lacor, capofila del progetto. In collaborazione con il laboratorio di Microbiologia clinica del Sacco, ENDORSE ha istruito gli operatori locali su come individuare casi sospetti, utilizzare i dispositivi di protezione individuale e gestire i campioni biologici potenzialmente infetti.
Nel Duemila il Lacor è stato teatro di un’epidemia di Ebola che ha visto la morte di 13 operatori sanitari tra cui il dottor Matthew Lukwiya, pilastro dell’ospedale. «Da allora il controllo delle infezioni è stato rafforzato», afferma Emmanuel Ochola, epidemiologo e responsabile del Dipartimento HIV del Lacor Hospital di Gulu. «Possiamo contare su un piano per affrontare l’emergenza: sappiamo individuare i casi sospetti, dove portare il paziente, chi avvisare, quali risorse usare. Siamo in grado di assicurarci forniture di dispositivi protettivi e siamo in costante contatto con agenzie come l’OMS. Abbiamo operatori sanitari, pronti ad agire, grazie a corsi di aggiornamento e simulazione svolti negli anni».
La collaborazione tra Lacor e ospedale Sacco riguarda anche la ricerca e la formazione. Di recente è stata pubblicata sulla rivista scientifica Plos One un’indagine epidemiologica che mostra un calo nella prevalenza della coinfezione tra epatite B e HIV in Nord Uganda. Lo studio è stato realizzato grazie alla collaborazione tra Lacor e Sacco. Annacarla Chiesa, prima firmataria, era stata indirizzata per svolgere la sua tesi di laurea nell’ospedale ugandese dal professor Massimo Galli, Direttore dell’ U.O.C. Malattie Infettive 3 del Sacco e docente di Malattie infettive all’Università degli Studi di Milano. «Il Covid impedisce quasi di parlare d’altro, ma l’Africa e le altre malattie non vanno dimenticate», ha ricordato il professor Galli citando lo studio realizzato al Lacor. Come Annacarla, molti giovani hanno trascorso periodi di stage al Lacor. Una collaborazione attiva, dunque, anche sul fronte della formazione. In passato, numerosi studenti di medicina o specializzandi hanno vissuto da uno a sei mesi nell’ospedale ugandese, che è anche polo universitario, come osservatori, stagisti o per realizzare la tesi. Un’opportunità che sarà di nuovo possibile cogliere quando si spegneranno i timori per la pandemia.
(Stefania Ragusa)