La pratica per l’iscrizione del genere musicale “raï” nella lista del patrimonio mondiale dell’Unesco è stata depositata di nuovo nei giorni scorsi ad Algeri. Lo ha annunciato il ministro della Cultura e delle Arti, Malika Bendouda, precisando che il dossier “è stato rafforzato di nuovi elementi”.
In una dichiarazione alla stampa di fine marzo mentre si trovava al Centro per gli studi sull’Andalusia di Tlemcen, la ministra aveva affermato che il suo dicastero lavora per “l’inclusione di quest’arte nel patrimonio mondiale dell’Unesco” e che il suo incontro con le figure illustri della musica raï, come Messaoud Bellemou e Boutaiba Saidi, mirano a dimostrare quanto si tratti di un autentico patrimonio algerino.
Il fascicolo per la richiesta di iscrizione all’Unesco era stato cancellato all’ultimo minuto nel dicembre 2020 per insufficienza di elementi costitutivi. Nel frattempo, si è lavorato a una maggiore inclusione di figure della società civile, artisti, giornalisti e specialisti che hanno ciascuno portato elementi di conoscenza ed esperienza per completare la domanda.
Il raï sarebbe nato dalle melodie beduine che i pastori componevano sul loro piccolo flauto di canna (la gasbah), nelle montagne dell’Algeria occidentale. I versi erano intercalati da ingiunzioni, come “raï!” ya raï! “, che sostituivano le parole. Negli anni ’30, i beduini seguirono la via della sedentarizzazione verso Orano, portando con sé il raï. Secondo altre fonti – si legge in un articolo dedicato alle origini del genere musicale del sito d’informazione svizzero Le Temps – la parola raï deriva dai classici sonetti arabi: il chir-el-melhoun. Questa forma musicale tradizionale, e altamente poetica, veniva praticata per le cerimonie, come matrimoni o circoncisioni. Gli algerini non avendo familiarità con l’arabo classico usato in queste poesie risalenti al XVI, XVII e XVIII secolo, hanno mantenuto solo le esclamazioni finali: “Ya raï!”.
Dal punto di vista musicale, il raï proviene dall’incontro nel porto di Orano delle culture sefardite spagnola, francese, araba, africana ed ebraica. Diventa così la musica dei souk, dei bar e delle case chiuse del porto algerino, dove il genere musicale si evolve rapidamente in fusioni. Su ritmi veloci, le canzoni parlano di alcol, sesso, depressione e povertà, suscitando grande emozione. A poco a poco si aggiungono strumenti tradizionali, violini e fisarmonica. Nella ricerca per Le Temps scritta dal musicista Alain Croubalian, si apprende che il raï tradizionale, dal folclore algerino, si è fuso con tutte le espressioni musicali popolari che si sono sviluppate al ritmo del Paese. Oggi sono ampiamente utilizzati anche i più moderni strumenti elettrici ed elettronici, e le tematiche affrontate sono ancora altrettanto ardite: i matrimoni forzati, il culto della verginità o la situazione delle donne. Facendo eco agli sconvolgimenti sociali, il raï moderno, odiato e adorato, si è imposto in tutti gli strati della popolazione, nonostante la riluttanza ufficiale e religiosa.
Le icone del raï degli anni ’30 e ’40 sono Hachemi Bensmire Cheikh Khaldi, mentre gli anni ’80 hanno fatto spazio alla cantante Cheika Remitti, seguita da artisti come Cheb Khaled (l’interprete di titoli dalla noti internazionalmente “Aicha” e “Didi”), Cheb Mami, Raina Raï, Houari Benchenet, Cheba Zahouania e Cheb Bilal.
L’età d’oro del raï è però finita nel sangue: nel 1994 il cantante Cheb Hasni fu assassinato dagli islamisti algerini. Anche il produttore Rachid Baba Hmed fu assassinato il 15 febbraio 1995 dal Gruppo islamico armato (Gia). “Questa tragedia segna la fine degli euforici anni 1985-1995 e l’avvento di quelli della censura, del coprifuoco e delle minacce. Il raï, mascalzone e libertario, era un obiettivo primario”, narra l’articolo “C’era una volta il raï” del sito pan.african-music.
(Céline Camoin)