di Oriana Dal Bosco*
Il massiccio del Tassili degli Ajjer custodisce il più grande museo al mondo di arte rupestre ma anche incredibili formazioni rocciose modellate in milioni di anni. E tra le montagne dell’Hoggar si cammina fra terra e cielo avvolti dal silenzio. A ottobre la rivista Africa in collaborazione con Unitour ha organizzato un viaggio nel sud dell’Algeria tra monumenti rocciosi, foreste pietrificate e disegni rupestri. Scopri di più su: https://www.africarivista.it/algeria/
Il sud dell’Algeria è uno scrigno di tesori segreti. In questa remota zona del Sahara il viaggiatore naviga tra dune e foreste di pinnacoli, archi d’arenaria e antichi letti di fiumi scomparsi. Qui, tra le pieghe geologiche di due parchi nazionali – il Tassili n’Ajjer e il Tassili Hoggar –, sorge il più grande museo al mondo di arte rupestre. Fu un soldato dell’esercito coloniale francese, tale Henri Lhote, a darne per primo informazioni, a catalogare e studiare incisioni e pitture che raccontano la storia non solo del deserto ma dell’uomo stesso, rappresentando momenti della vita quotidiana, fauna e flora di un ambiente ormai scomparso sotto le sabbie, spiritualità e antichi rituali dei nostri predecessori sahariani. Sull’altopiano del Tassili n’Ajjer, che di fatto è la frontiera naturale tra Libia e Algeria, a circa 1.800 metri d’altitudine vi è un piccolo miracolo: in prossimità della località di Tamrit, infatti, si possono ancora vedere circa duecento esemplari di Cupressus dupreziana, quel che resta di una foresta che fu. Certo, l’emozione di vedere questi cipressi, fossili viventi, non è per tutti, essendo raggiungibili solamente con un trekking che risale l’altopiano, ma la fatica è ben ricompensata!
La perla del Tassili
Del resto siamo ormai distanti da quegli anni in cui visitare il Parco del Tassili n’Ajjer implicava tempo e sacrifici: oggi, con due ore e mezza di volo da Algeri si raggiunge comodamente Djanet, capoluogo di provincia e punto di partenza per la scoperta di una delle regioni più affascinanti dal punto di vista culturale e tra le più belle, non solo dell’Algeria, ma di tutto il Sahara. Djanet nasce come piccolo avamposto militare durante la colonizzazione francese (all’epoca si chiamava Fort Charlet), di cui rimane il piccolo fortino sulla collina sovrastante l’oasi. Considerata “la perla del Tassili” grazie al suo immenso palmeto, la città è in realtà formata da cinque villaggi: El Mihan, Adjahil, Azelouaz, Ain Berber, Tin Katma; quest’ultimo è il cuore antico, e anche il centro commerciale, dell’oasi. Arrivare al tramonto all’ingresso dello ksar (villaggio fortificato) di El Mihan vuol dire avere davanti un affascinante presepe, oggi semiabbandonato. Nelle vecchie case di pietra e fango non vi erano i comfort che la popolazione odierna anela, così le abitazioni sono state progressivamente abbandonate in favore di nuovi edifici con acqua corrente ed elettricità. Se negli anni Ottanta si vedevano aggirarsi per la via principale sporadici fuoristrada e i dromedari dei Tuareg, oggi qualcosa è cambiato: i circa 2.200 chilometri di carrozzabile che collegano l’oasi alla capitale Algeri sono ora asfaltati, dando anche alle utilitarie la possibilità di raggiungere l’estremo sud del Paese.
Con il suo fascino immutato, Djanet è la porta principale di un ecomuseo che si estende per 80.000 chilometri quadrati, in un territorio a tratti ricoperto di dune ma per la maggior parte roccioso: proprio le rocce di tenera arenaria hanno permesso di conservare, secondo le stime più recenti, 70.000 tra pitture e incisioni rupestri, numero sicuramente destinato a salire con le ricognizioni riprese negli ultimi anni. I rari visitatori camminano sull’altopiano tra reperti litici e frammenti ceramici che appaiono sulla superficie della sabbia: frecce, scalpelli, raschiatoi e macine, testimoni di una vita caratterizzata prima da raccolta, pesca e caccia, quindi dall’allevamento. Sfiorare uno di questi antichi strumenti della storia dell’umanità è un’emozione possibile solo in pochi altri luoghi al mondo.
Il silenzio dell’Hoggar
Lo spettacolo prosegue nel Tassili Hoggar, massiccio che prende il nome dalla popolazione tuareg che tradizionalmente vi abita, i Kel Ahaggar. Si parte da Tamanrasset, il capoluogo, a 1.400 metri sul livello del mare, palcoscenico ideale di avventure romantiche narrate in libri e film che l’hanno resa famosa al pubblico europeo. Vogliono le tradizioni orali che in questa zona vivesse la regina Tin Hinan, eroina leggendaria da cui avrebbero origine i Tuareg locali.A rafforzare le narrazioni che asseriscono l’autenticità storica di Tin Hinan, un colossale monumento megalitico nei pressi di Abalessa, a un’ottantina di chilometri da Tamanrasset, è da tutti indicato come “la tomba di Tin Hinan”.
Anche questa regione è ricca di arte rupestre, ma i numeri non sono così importanti come quelli del Parco del Tassili. La regione vulcanica dell’Hoggar è invece famosa grazie a padre Charles de Foucauld: francese, già frate trappista, trasferitosi nel 1905 a Tamanrasset, dove morì nel 1916, fondò un piccolo eremo sull’Assekrem, vetta di 2.800 metri d’altezza, ancor oggi meta di pellegrini e turisti. Sfidando il clima e i disagi, questi si spingono fin sulle cime rossastre della catena dell’Atakor, del Monte Tahat, la vetta più alta d’Algeria (2.908 metri), e dell’Ilamane (2.739) per ammirare albe e tramonti in un silenzio assoluto, raccolti in un’atmosfera ovattata di solitudine e di spiritualità profonda.
La cosa che più rimane impressa di un viaggio in Algeria è la sensazione di pace. Merito del silenzio che avvolge il paesaggio apparentemente immobile del deserto e che si ritrova visitando i siti archeologici, collocati in posizioni straordinarie, a pochi passi dalle acque del Mediterraneo (ne parleremo sul prossimo numero di Africa). I pochi turisti occidentali sono accolti da sorrisi e dall’ospitalità genuina del popolo algerino, felice e orgoglioso di accompagnare il viaggiatore a scoprire questo scrigno ricco di gemme preziose.
Il fascino dello M’zab
Il Sahara algerino è disseminato di bellezze da scoprire: penso a Ghardaïa, capoluogo della pentapoli mozabita, dove il tempo sembra essersi fermato e si vive aggrappati al ritmo lento della vita quotidiana e alle tradizioni. I cinque villaggi dello M’zab (vedi Africa 4/22) furono costruiti in una conca naturale a scopo difensivo: fuggivano dalle persecuzioni i mozabiti, puritani dell’islam, e a Ghardaïa trovarono il luogo che ha loro permesso di sopravvivere fino ai giorni nostri.
Peccato non poter chiedere oggi all’architetto Le Corbusier cosa lo ispirasse di quest’architettura, e ascoltare dalle sue parole la descrizione di quest’opera del genio umano. A Ghardaïa infatti nulla è per caso e nessun particolare trascurato: i muri delle case sono intonacati in modo che i raggi solari non riscaldino gli ambienti intimi delle abitazioni, completamente spoglie di mobilio ma ricche di nicchie e di armadi a muro; il flusso dell’acqua delle fontane pubbliche scorre via per andare a irrigare palme da dattero i cui frutti vengono ancora oggi divisi equamente tra gli abitanti; nulla turba la quiete dei quartieri residenziali perché le attività commerciali sono concentrate alla base dei villaggi, costruiti a cono intorno alla moschea, su collinette naturali, con una sistemazione urbanistica pressoché perfetta. Ghardaïa è unica, sì, come i suoi abitanti, uomini in abiti tradizionali che consistono in pantaloni plissettati e donne che sembrano bianchi fantasmi, coperte interamente (tranne un occhio) mentre si aggirano furtive tra i vicoli stretti dei villaggi.
Un mondo vicino
A ovest di Ghardaïa si aprono gli affascinanti “giardini della Saura”: in un territorio desertico, piatto e ostile ma accarezzato dalle immense dune dell’Erg Occidentale, sorgono numerosi antichi villaggi berberi costruiti in argilla, fango e paglia: piccole oasi fortificate, che si svilupparono grazie ai commerci con l’Africa nera e l’Occidente. Si stenta a credere che nel Quattrocento un commerciante veneziano, Antonio Malfante, abbia lasciato la Serenissima per raggiungere a dorso di cammello la piccola oasi di Adrar in cerca di fortuna: nelle sue lettere all’amico genovese racconta la sua avventura ma soprattutto la disfatta che lo portò, primo bianco a spingersi così a sud, a tornare a casa a mani vuote.
Non è l’unico europeo a essersi addentrato, nel passato, nel Paese: Isabelle Eberhardt, esploratrice e scrittrice svizzera di origini russe, viaggiò travestita da uomo nel deserto alla fine dell’Ottocento, lasciandoci importanti testimonianze di luoghi e situazioni precluse alle donne di una società all’epoca maschilista. Nello stesso periodo il pittore Étienne Dinet viveva a Bou Saada, 250 chilometri a sud di Algeri, dove la sua casa è stata trasformata in un piccolo museo, immortalando col pennello la vita quotidiana delle oasi in capolavori oggi conservati al Museo d’Orsay di Parigi. Il Mediterraneo non ha mai rappresentato un ostacolo tra l’Europa e l’Africa, è stato semmai un proficuo spazio di relazioni e commerci in cui si sono intrecciati molteplici destini umani. Come quello di Alì Piccinin, protagonista della storia forse più fiabesca che lega l’Italia all’Algeria: originario di Mirteto di Massa (Toscana), fu rapito dai corsari a fine Cinquecento e portato ad Algeri, dove il suo carattere lo portò a scalare le vette della Sublima Porta diventando Pascià di Algeri…
*L’autrice dell’articolo, Oriana Dal Bosco, massima esperta italiana di Algeria (ha appena pubblicato la guida Polaris Algeria del Nord), sarà l’accompagnatrice del viaggio speciale che la rivista Africa ha organizzato in collaborazione con Unitour tra il monumentale deserto del Tassili e i siti archeologici romani della costa algerina. Dal 6 al 14 ottobre. Imperdibile. https://www.africarivista.it/algeria/
Foto di apertura; Hamdi Oussama / Shutterstock