Algeria, sessantacinque anni dopo l’onda d’urto dei test nucleari francesi

di claudia

Valentina Giulia Milani

Il 13 febbraio 1960 la Francia effettuò il suo primo test nucleare nel Sahara, con conseguenze devastanti. Qual è l’eredità dei test nucleari francesi in Algeria, 65 anni dopo?

Il 13 febbraio 1960, nel pieno della guerra di liberazione algerina, la Francia effettuò il suo primo test nucleare nel Sahara, dando inizio a una serie di esperimenti con conseguenze devastanti per le popolazioni locali, l’ambiente e non solo. A sessantacinque anni di distanza, quell’eredità storica e politica pesa ancora, come conferma a InfoAfrica/AfricaRivista il professor Francesco Tamburini, docente di Storia e Istituzioni dei Paesi Afro-Asiatici, vicedirettore per il Medio Oriente e il Nord Africa del Journal of Asian and African Studies e coordinatore dei Programmi di Scambi Internazionali del Dipartimento di Scienze Politiche dell’Università di Pisa.

“Il contesto in cui avvengono questi test va inquadrato nella più ampia cornice della guerra fredda, ma anche del gollismo e della necessità francese di riaffermare la propria potenza dopo le sconfitte in Indocina e nella crisi di Suez”, spiega Tamburini, sottolineando che la Francia, provata dalla Seconda guerra mondiale, cercava di garantirsi un posto tra le potenze nucleari globali. Per effettuare i test scelse il deserto algerino, allora sotto il suo controllo, sia per la distanza dai centri abitati sia per la vicinanza logistica rispetto alla madrepatria.

Così, tra il 1960 e il 1966, la Francia condusse 17 test nucleari nel Sahara algerino: quattro atmosferici a Reggane e tredici sotterranei a In Ekker. Il primo esperimento, Gerboise Bleue, avvenne nei pressi di Reggane con una potenza di circa 70 kiloton, quasi quattro volte superiore a quella della bomba di Hiroshima, seguito da altri tre test denominati Gerboise Blanche, Rouge e Verte, che segnarono l’ingresso della Francia nel club delle potenze nucleari.

I test non si limitarono al periodo coloniale. “Anche dopo l’indipendenza dell’Algeria, gli esperimenti continuarono in base agli accordi confidenziali tra Parigi e il governo provvisorio rivoluzionario algerino, che in cambio ottenne il riconoscimento della sovranità”, spiega Tamburini, ricordando che la Francia non considerò mai l’Algeria una semplice colonia, ma parte integrante del proprio territorio. Dal 1830, anno della conquista, l’Algeria venne infatti progressivamente integrata nel sistema amministrativo francese e, nel 1848, fu suddivisa in tre dipartimenti metropolitani, al pari delle regioni della Francia continentale. “Questa distinzione giuridica la rendeva diversa dalle colonie tradizionali, come la Mauritania o il Congo, e dai protettorati come il Marocco e la Tunisia”, osserva il professore, aggiungendo che tale status contribuì alla rigidità della posizione francese durante la guerra d’indipendenza. Così, quando gli Accordi di Evian del 1962 sancirono l’indipendenza algerina dopo 130 anni di dominio francese, le autorità locali accettarono clausole segrete che consentirono alla Francia di mantenere alcune installazioni militari anche dopo la decolonizzazione.

Tra queste basi vi era B2 Namous, situata nel sud dell’Algeria e considerata uno dei maggiori centri di sperimentazione di armi chimiche dopo quelli sovietici. Secondo le ricerche di Tamburini, la base copriva un’area di 100×60 km e fu accettata dall’Algeria a condizione che fosse gestita da un’impresa civile. Così, nel 1965, la Sodéteg, affiliata al gruppo Thompson, prese il controllo delle operazioni per eludere il divieto algerino sulla presenza militare diretta.

Gli Accordi di Evian permisero alla Francia di mantenere la struttura e di integrarla in un programma di ricerca militare che includeva anche il sito di Hamaguir, dedicato alla sperimentazione missilistica. L’attività sperimentale proseguì ufficialmente fino al 1986.
Circa la consapevolezza degli effetti dei test nucleari, “è improbabile che la popolazione locale, così come i militari algerini e francesi, fosse pienamente consapevole della portata delle sperimentazioni condotte, in particolare nella base B2 Namous, dove furono testate armi chimiche e batteriologiche con conseguenze ancora poco chiare”, afferma Tamburini. Tuttavia, il governo francese non poteva non conoscere i rischi legati alle radiazioni dopo i casi di Hiroshima e Nagasaki.

I lasciti a lungo termine di queste sperimentazioni restano poco documentati, ma studi indicano un aumento di tumori, malformazioni congenite e patologie da esposizione alle radiazioni. Anche i militari francesi furono esposti, spesso inconsapevolmente, alle radiazioni, riportando gravi danni alla salute. “Dopo ogni test atmosferico, particelle radioattive venivano disperse su tutta l’Africa subsahariana e oltre, suscitando proteste in diversi Paesi asiatici e africani”, prosegue lo studioso. Il test Beryl, condotto il 1° maggio 1962, fu particolarmente disastroso: un’esplosione sotterranea causò una fuoriuscita radioattiva che contaminò anche alti funzionari francesi presenti sul sito, tra cui membri della Commissione ministeriale, alcuni dei quali morirono di leucemia negli anni successivi.

Le normative restrittive sugli archivi militari francesi hanno reso difficile la ricostruzione storica di questi eventi. “Il problema è che il nucleare militare si accompagna sempre a un velo di segretezza, ma nel caso del Sahara questa riservatezza è stata amplificata dalla natura politica della guerra d’Algeria e dalle tensioni franco-algerine”, afferma Tamburini. Inoltre, la difficoltà e la lentezza nell’attribuire responsabilità dirette è stata aggravata dal fatto che gli effetti delle radiazioni possono essere deterministici o stocastici. “Gli eventi deterministici si verificano con certezza se si supera una soglia critica di esposizione. Tuttavia, gli effetti stocastici sono casuali e possono manifestarsi a distanza di anni. È documentato, ad esempio, che persone sottoposte a una semplice radiografia abbiano sviluppato tumori dieci anni dopo, perché le radiazioni alterano il DNA in modi imprevedibili”, spiega lo studioso aggiungendo che in ambito medico, stabilire un nesso causale diretto tra esposizione e malattia è estremamente complesso. “Una cosa, però, è certa: nessuna radiazione è completamente innocua”, puntualizza.

Sul piano ambientale, “il deserto può sembrare isolato, ma la contaminazione si diffonde comunque”, afferma Tamburini, spiegando che il vento trasporta pulviscolo radioattivo fino alle falde acquifere, aumentando il rischio di contaminazione. Anche il materiale radioattivo recuperato e riutilizzato costituisce una minaccia. “I Tuareg, ad esempio, hanno raccolto e rivenduto pezzi di metallo lasciati sul sito, ma la loro destinazione è ignota. Inoltre, durante i test, i francesi usarono auto, camion e aerei per studiare gli effetti dell’onda d’urto. Molti di questi resti rimasero sul posto per anni e, nel migliore dei casi, furono sepolti senza alcuna mappatura chiara”, aggiunge.

Il nodo dei test nucleari francesi in Algeria resta, ancora oggi, irrisolto, anche perché la Francia non ha mai avviato una bonifica: “sarebbe troppo costosa e creerebbe un precedente che Parigi non può permettersi”, commenta Tamburini. L’Algeria ha annunciato di voler presentare una richiesta ufficiale alla Francia, “ma resta da vedere se avrà sviluppi concreti o rimarrà un punto interrogativo, dato che le relazioni tra i due Paesi restano tese”, conclude.

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