Alla scoperta delle “architetture dell’oralità” in Africa

di claudia

di Federico Monica

Nella cultura occidentale, l’edificio solido, immutabile, destinato a perpetuarsi, è un mito, quasi un feticcio. In Africa le cose stanno diversamente, ma non sono meno ricche di senso.

Fin dall’antichità i resoconti degli esploratori europei che si inoltravano a sud del Sahara erano pressoché unanimi nel raccontare la scarsità o addirittura l’assenza di grandi monumenti, testimonianze storiche e architetture del passato. Una caratteristica che molti, specialmente in epoca coloniale, attribuivano alla mancanza di società organizzate o di competenze tecniche “evolute” in grado di contrastare condizioni climatiche ed eventi atmosferici particolarmente ostili. Il mito di un’Africa senza storia e quindi da civilizzare nasce anche da quest’ottica, tutta occidentale, secondo cui una civiltà è superiore alle altre tanto più è in grado di produrre monumenti imponenti e in grado di perpetuare nel tempo la sua grandezza.

Questo punto di vista ancora piuttosto diffuso rischia di sminuire l’importanza che hanno avuto – e hanno tuttora – concezioni diverse dell’ambiente costruito, basate non sulla durata temporale ma su altri aspetti, come il ruolo della comunità o il rapporto equilibrato con l’ambiente. Uno di questi approcci, riconoscibile in molte culture del continente africano, è quello che amo definire “architettura dell’oralità”.

Per secoli abbiamo considerato le culture e le tradizioni “orali” inferiori rispetto al nostro approccio basato sul rigore scientifico, la certezza delle fonti e la conservazione delle testimonianze storiche; l’antropologia ha mostrato come spesso si tratti semplicemente di modi differenti di vedere il mondo, posizionarsi nella storia e costruire un immaginario. Non solo la storia e le tradizioni, ma anche l’architettura o in generale l’arte di costruire edifici e città possono essere lette alla luce di questo approccio culturale profondamente diverso.

L’idea di un edificio solido, immutabile e destinato ad essere eterno è un mito, quasi un feticcio, nella cultura occidentale; le costruzioni storiche, poi, vengono conservate ad ogni costo, preservandone i materiali originali ed evitando rifacimenti o ricostruzioni “in stile”. Importantissimo, ci mancherebbe, ma è interessante notare come a sud del Sahara l’approccio sia spesso l’opposto: l’edificio non è un feticcio da preservare intatto, ma può trasformarsi e addirittura essere totalmente rifatto, purché mantenga l’essenza profonda che lo ha generato o lo ha accompagnato nella sua storia.

Il caso delle moschee di fango del Sahel è emblematico: com’è noto, queste meravigliose architetture vengono riparate e parzialmente ricostruite in grandi cerimonie collettive che si ripetono ogni anno coinvolgendo l’intera popolazione del villaggio o della città. Una pratica ben lontana dalla nostra idea di restauro e che al contrario diventa un vero e proprio rituale di rinnovamento in cui l’edificio preserva la sua forma grazie al continuo rifacimento della sua pelle più esterna e al contempo ribadisce il suo ruolo “pubblico”. È un aspetto che ritroviamo proprio nelle culture cosiddette orali, dove la storia è tramandata ripetendola, e quindi rinnovandola ogni volta che viene narrata.

Ecco che le architetture possono mutare o addirittura essere rifatte: non è l’oggetto originale ad avere importanza ma l’essenza dell’edificio in sé e la sua capacità di tramandare una storia collettiva di cui tutti possono sentirsi parte. «Questa è la casa che fece il nonno di mio nonno», mi raccontava un giorno un anziano seduto davanti a una piccola costruzione di pani di fango in uno sperduto villaggio del Ghana. Lo guardai con sospetto: a giudicare dall’aspetto e dal livello delle altre costruzioni intorno, quell’edificio doveva avere al massimo qualche anno, e nonostante la sua ferrea convinzione non mi lasciai convincere.

Alcuni anni dopo, in un villaggio ad altre latitudini mi fermai a osservare un gruppo di gente indaffarata attorno a un rudere ormai crollato. «Raccolgono la terra della loro vecchia casa per ricostruirsene una nuova», mi disse un amico. In un attimo la mia mente tornò a quel villaggio ghanese: forse le pareti che avevo visto erano state rifatte soltanto l’anno prima, ma la terra utilizzata per costruirle era quella dei resti delle case precedenti. Si era intrisa del passaggio e della vita quotidiana degli antenati di quella famiglia, ne portava fisicamente le tracce e in un qualche modo ne manteneva viva la presenza. Quel vecchio aveva ragione.

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