Le previsioni sull’impatto dei cambiamenti climatici sul benessere delle persone da qui al 2050 sono più che allarmanti e l’Africa si ritrova al centro di questo scenario. La causa di questi disastri annunciati, anche se non è l’unica, risiede proprio nel surriscaldamento della terra. Tra i Paesi al mondo attualmente più colpiti da catastrofi naturali, nell’ordine di gravità troviamo Yemen, Afghanistan, Siria ed Haiti, ma dal quinto posto in giù in questa spietata classifica c’è soltanto l’Africa, ovvero Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Sudan, Nigeria, Etiopia e Zimbabwe
di Mario Ghirardi
Mentre al COP26, conferenza indetta dall’Onu sui cambiamenti climatici che si è tenuta in questi giorni a Glasgow, in Scozia, le Nazioni faticano a trovare persino una via d’accordo improntata al ribasso, gli studi che legano i risvolti dei cambiamenti climatici in atto sul pianeta al benessere delle persone nel mondo, da qui alla metà del nostro secolo, sono più che allarmanti. Ed in questo scenario l’Africa si trova ancora una volta purtroppo in prima linea.
Nel 2050 si prevede che ci saranno nel mondo 80 milioni in più di affamati (20 milioni in più sono già il dato consolidato del 2020 rispetto al 2019) e svariati milioni di nuovi poveri. Altri 350 milioni di sfortunati potrebbero non avere più accesso a sufficienti sorgenti di acqua potabile e il numero dei contagiati dalle malattie portate dalle punture di insetti, già così alto sul territorio africano, potrebbe schizzare alle stelle. La causa di questi disastri annunciati, anche se non è l’unica, risiede proprio nel surriscaldamento della terra con relativo innalzamento dei mari, disastroso per tutti, ma in particolare per i tanti che vivono nei villaggi costieri e perderebbero le risorse che oggi traggono dalla pesca e non solo.
La pubblicazione dei dati contenuti nel corposo ‘Dossier immigrazione 2021’, appena partorito dal Centro romano di ricerca Idos, ci mette in guardia anche dai danni frutto delle azioni combinate di alterazioni del clima e di pandemia da Covid 19. Se in Egitto in particolare, come in troppi Paesi asiatici, ‘la diffusione del virus è diventata anche l’occasione per violente repressioni e gravi violazioni dei diritti umani’, così recita il documento, è sui migranti che possono farsi sentire le peggiori ripercussioni che aggravano la situazione di chi è ammassato ai confini degli Stati o intrappolato in centri d’accoglienza privi di servizi di base. Il caso dei confini divenuti impermeabili tra Repubblica Democratica del Congo e Uganda è emblematico. Nonostante infatti che quest’ultima Nazione abbia accolto un milione e 400mila rifugiati, vedendo, da Paese povero qual è, in essi una risorsa, nell’ultimo anno ha anch’essa bloccato l’ingresso di 10mila persone che premono a quella frontiera.
Su 40,5 milioni di persone che nel mondo hanno cercato rifugi d’emergenza, 30 milioni, ovvero i tre quarti, sono fuggiti dalle loro residenze abituali per sfuggire a calamità naturali come uragani, tifoni e incendi, un numero triplo persino rispetto a quello già altissimo di chi fugge dai conflitti armati. In particolare segnaliamo il caso della zona subsahariana, che è tradizionalmente colpita da carestie dovute alla siccità. Nel 2020 da qui risultano sfollate 4milioni 299mila persone, un numero enorme che però rappresenta ormai soltanto la metà di coloro che dalla zona fuggono da guerre e violenze, sequestri e attacchi ai villaggi, calcolati in 7milioni 780 mila individui, a dimostrazione dell’espandersi dell’insicurezza legata alle incursioni omicide dei terroristi islamici.
Tornando ai Paesi più colpiti da catastrofi naturali, nell’ordine di gravità troviamo sì Yemen, Afghanistan, Siria ed Haiti, ma dal quinto posto in giù in questa spietata classifica c’è soltanto l’Africa, ovvero Repubblica Democratica del Congo, Sud Sudan, Sudan, Nigeria, Etiopia e Zimbabwe. Senza contare che in questi e molti altri Paesi dell’Africa orientale, Kenya in prima fila, le invasioni di locuste nello scorso anno hanno messo in ginocchio le colture agricole, con il paradosso che nemmeno l’uso dei pesticidi è auspicabile, visto che sull’altro piatto della bilancia sarebbe talmente alta la quantità di prodotti chimici da irrorare sui campi che i danni su pascoli e colture potrebbero essere superiori ai benefici. Il rimedio sta in nuove foreste per arginare desertificazione e alluvioni? Nemmeno purtroppo, perché la piantumazione di milioni di nuovi alberi, come si sta facendo sulla ‘catena verde’ subsahariana, ad esempio, potrebbe alterare anche qui la biodiversità, così come provocare consistenti piogge artificiali può generare tossicità nelle acque per la ricaduta degli agenti chimici a terra.
Il futuro è cupo e a Glasgow si nicchia.
(Mario Ghirardi)