di Marta Sachy
In questa rubrica ho ultimamente affrontato temi spinosi legati al razzismo e ai pregiudizi. Ora voglio tornare alla celebrazione della resilienza e della bellezza con cui riusciamo a essere ispirati e a ispirare cambiamento. La vera rivoluzione parte da noi, come insegnano due libri e un festival illuminanti
Nel grandioso libro di Bell Hooks Tutto sull’amore si parla di amore come fenomeno sociale collettivo, forza trasformatrice che si declina in cura, impegno, fiducia, rispetto, responsabilità, non solo verso sé stessi ma soprattutto verso gli altri.
Per la compianta Bell Hooks (pseudonimo di Gloria Jean Watkins, scrittrice, attivista e femminista statunitense, morta nel 2021 all’età di 69 anni), bisogna adottare l’etica dell’amore che ci sprona a vivere la nostra esistenza responsabilizzandoci in ogni atto, ogni parola, ogni pensiero, e rivolgerli all’esterno tenendo presente la sostanziale interdipendenza delle nostre vite. Amare significa vivere nel quotidiano tutte le dimensioni dell’amore: cura, impegno, fiducia, responsabilità, rispetto, conoscenza anche in forma collettiva. E così l’amore diventa una forza anche politica, che orienta le decisioni sempre secondo sentimenti di incontro e di costruzione.
Attorno a questi temi gravita il Festival DiverCity, un’iniziativa promossa da Andi Ngaso con molti collaboratori tra cui Paolo Maurizio Talanti (entrambi nella foto). Da anni sono paladini instancabili di processi di riflessione e di cura di sé per intere comunità. Andi Ngaso è un medico che lavora nelle periferie del nostro Paese e alle porte del Mediterraneo a fianco degli ultimi e dei più fragili, e che complementa la cura clinica individuale con quella collettiva, esplorando e promuovendo il potenziale di artisti e talenti. Con lui Maurizio Talanti amplifica strumenti di trasformazione socialequali moda, creatività e cucina in un viaggio che ci fa uscire dalla rappresentazione dominante e che utilizza la rappresentazione altra come celebrazione della propria unicità e di nuove soggettività inesplorate.
Nelle loro attività creano spazi di cura come contraltare all’aggressione sistemica ai diritti e alla salute delle comunità marginalizzate, razzializzate e dal background migratorio. Esplorano nuove sensibilità e prospettive che mettono in luce la pluralità dei soggetti.
Costruiscono comunità di persone diverse tra loro, ma rispettose ognuna dell’altra; un segno di presenza di riappropriazione dell’amore come spazio in cui ciascun individuo si sente libero di parlare e di ascoltare senza timore. Amare è prendersi cura di sé, farsi del bene, farlo a chi ci sta accanto. Dobbiamo cominciare a ripensare al tutto, con meno tensioni e più Amore e Cura di noi tutti.
Nel libro Il Manifesto della cura. Per una politica dell’interdipendenza, curato da The Care Collective, viene espresso come la cura sia il concetto e la pratica più radicale che abbiamo oggi a disposizione.
La cura non è un bene: è un esercizio quotidiano, un valore fondamentale e un principio organizzativo sulla base del quale possono e devono sorgere nuove politiche. La cura occupa me stesso, la mia famiglia, la mia comunità. Ci fa capire che è fondamentale abbracciare le nostre soggettività diverse e plurali.
Foto credit: Marzio Emilio Villa