di Marco Trovato – direttore editoriale della rivista Africa
Una marea tumultuosa sta scuotendo i palazzi del potere in Africa: sono i figli irrequieti di questo continente che scendono in piazza per urlare a gran voce la loro rabbia e la loro voglia di cambiamento. Sono una moltitudine impressionante. Ce l’hanno con leader politici ritenuti “corrotti”, “incapaci”, “al soldo dell’Occidente” (accusato di imperialismo e di neocolonialismo). Li abbiamo visti sfilare a Lagos, Dakar, Nairobi, Libreville, Johannesburg, Khartoum, Bamako, Ouagadougou, Niamey… Continueranno a farlo, sempre di più, e sarà impossibile per i governanti sfuggire alla forza dirompente di questo tsunami. Chi ha provato a reprimere i cortei (si contano già centinaia di vittime) non ha fatto altro che infiammare la protesta.
Chi ha commesso l’errore di ignorare il ruggito della piazza è stato sopraffatto dalle rivolte (talvolta scippate da militari golpisti) o travolto da disfatte elettorali. Chi ha evitato una prova di forza è stato costretto a scendere a patti coi manifestanti.
I giovani africani – che rappresentano il 70% degli abitanti subsahariani – sono più che mai determinati a farsi sentire, a ribellarsi al malgoverno, alla corruzione, alle inaccettabili ingiustizie che lacerano la società in cui vivono. Esigono dalla politica risposte e soluzioni ai loro problemi quotidiani: anzitutto la mancanza di lavoro, l’assenza di tutele e di welfare, l’insicurezza dilagante, l’inadeguatezza di scuole e università, la privatizzazione di una sanità sempre più elitaria. Contestano un modello economico basato sullo sfruttamento indiscriminato che aumenta il divario tra ricchi e poveri. Pretendono che le fortune celate nei loro Paesi siano usate per promuovere il benessere e lo sviluppo, e non per arricchire caste e oligarchie sostenute da forze straniere.
Non sono ancora un vero movimento, le mobilitazioni appaiono frammentate, dalle piazze devono emergere leader carismatici, ma le parole d’ordine e le origini delle proteste sono chiare e condivise. A nutrire il risentimento di questa generazione ferita è la crisi sociale ed economica innescatasi nel 2020 con la pandemia da covid – che ha frenato la crescita dei pil africani dopo 15 anni di boom – e acuitasi oggi con l’instabilità internazionale: la guerra in Ucraina ostacola l’arrivo dei cereali, mentre il conflitto a Gaza penalizza il commercio marittimo nel Mar Rosso. Le conseguenze economiche sono devastanti: difficoltà di approvvigionamento stanno causando un aumento vorticoso dei prezzi dei beni di prima necessità – in gran parte importati – in un’area geografica in cui il 40% degli abitanti vive al di sotto della soglia di povertà e dove l’inflazione sta facendo evaporare il potere di acquisto dei salari.
A peggiorare la situazione è il crollo delle monete nazionali (il rand sudafricano e la naira nigeriana, valute delle maggiori economie africane, hanno perso gran parte del loro valore) unito all’impennata dei debiti sovrani (nei confronti di Cina, Stati Uniti, Paesi europei, Banca mondiale e Fondo monetario internazionale). Per fare cassa, i presidenti aumentano le tasse e tagliano i sussidi. Ma ciò non fa altro che aumentare la collera e l’esasperazione, allargando la frattura tra la piazza (popolata da giovani) e il palazzo (dominato da vecchi). I figli dell’Africa – urbanizzati e digitalizzati – sognano un futuro migliore e vogliono esserne protagonisti. Chiedono rispetto, giustizia e opportunità. Servono leader capaci e responsabili che sappiano ascoltarli e soddisfarli. Serve aria nuova per sostenere le loro ambizioni di riscatto. Sarà impossibile soffocare la loro insopprimibile sete di liberazione.