Natalina Isella è una donna minuta e tenace. Che salva dalla strada e dalla violenza le ragazzine accusate di stregoneria. Il suo centro di accoglienza a Bukavu, nella Rd Congo, è diventato un rifugio dall’orrore alimentato da guerra, povertà e superstizioni
L’immagine che ti resta dentro di Natalina è il volto sereno e sorridente mentre accarezza una delle ragazzine che ospita nella casa di accoglienza Ek’abana. Quelle qui ospitate sono tutte piccole donne che un giorno si sono sentite chiamare “strega”. Chi a cinque anni, chi a dodici o anche più grande. Chi è stata picchiata, chi sbattuta fuori di casa, chi ha subito un tentativo di linciaggio. Lo fa spesso, Natalina: si mette in disparte con qualcuna di loro, parla a lungo in un bisbiglio. Poi solleva il capo, le guarda con dolcezza e le accarezza.
Ogni giorno Merveille, Hortense, Neema, Françoise, Antoinette, Alice e le altre le sottopongono un piccolo o grande problema. Lei risponde, ma soprattutto incoraggia, sprona, tranquillizza, rassicura. Sa che deve, con tanta pazienza, risanare anime lacerate. Ek’abana ha un doppio significato nella lingua dei Bashi: “Casa dei bambini” ma anche “I bambini hanno una casa”. Natalina Isella è lombarda. I 70 anni non li aspetta più; oltre 40 quelli passati nella Repubblica democratica del Congo. Cammina piano e un po’ a fatica, ma non passa giorno che non salga e scenda quei ripidi 200 metri che separano la sua abitazione dal centro di accoglienza, su una delle tante colline di Bukavu, che digradano verso il Lago Kivu.
Terra senza pace
Dalla verandina di casa, la sera, la città sembra ancora bella come quando i coloni belgi ci andavano in vacanza, con le sue mille luci che si specchiano nell’acqua. All’imbrunire, sfilano le barche dei pescatori e l’orizzonte è fatto di colline a perdita d’occhio. Non si vedono il degrado né le strade ridotte a viottoli sconnessi. Né la povertà estrema della gente, che la luce del sole invece svela negli abiti laceri o nelle infradito consunte.
Bukavu è una città cresciuta troppo in fretta e a dismisura: poco più di 150.000 abitanti nel 1994, all’epoca in cui sciamavano in città i profughi ruandesi nel dopogenocidio, oltre un milione oggi. Ed è in costante crescita, perché a Bukavu si continua ad arrivare scappando dai saccheggi e dalle violenze delle bande armate nei villaggi. Bukavu la si lascia solo per andare a lavorare nelle miniere di coltan, oro, cassiterite, di cui è piena questa zona del Sud Kivu, facendosi schiavizzare nei cunicoli dei minerali preziosi.
Ma qui restano le famiglie. La città, divisa dal Ruanda solo dalla stretta coda del lago, in questi 25 anni non ha mai conosciuto la pace: fino al 2003 la guerra civile congolese; dopo, il mai terminato conflitto fra soldati e miliziani di ogni risma per il controllo delle miniere.
Le radici del male
Tutto questo c’entra con le accuse di stregoneria? Natalina dice di sì: «La sorcellerie è un modo per trovare qualche spiegazione a una vita di sofferenze. Naturalmente non è l’unica ragione. C’è anche la disgregazione delle famiglie, per cui spesso si accusa la figlia del primo matrimonio del marito o della moglie; ci sono le piccole nate per strada da ragazze madri poverissime o violentate; c’è l’ignoranza, che spinge ad accusare la bambina dei vicini per qualche malattia o lutto. Ci sono soprattutto le cosiddette “camere di preghiera”, piccole sette guidate da improbabili pastori in cerca di soldi, che mescolano (poco) cristianesimo con tanta superstizione e presunti poteri spirituali. Quasi sempre, dietro un’accusa di stregoneria c’è uno di questi santoni».
Portano ferite profonde, queste bambine. Si sono sentite dire «sei tu che hai fatto morire tua madre», «sei tu che hai fatto ammalare il tuo compagno di giochi». Trattate da appestate, buttate in strada. Qualche anima buona le porta a Ek’abana, talvolta gli stessi agenti della polizia dei bambini (Bukavu ne conta 40). Che cosa accade nella mente e nel cuore di una bambina quando la chiamano sorcière? Che cosa le rimarrà, negli anni a venire, di un’esperienza tanto traumatica? Sono domande inevitabili quando le hai davanti e ti raccontano la loro storia, bloccandosi ogni tanto col nodo in gola.
La terza vita
“Sorella” Natalina fa parte delle Discepole del Crocifisso, un piccolo istituto della diocesi di Milano fondato dal padre barnabita Gaetano Barbieri nel 1964. Il loro carisma è «portare Dio al mondo e il mondo a Dio», come dice lei stessa, inserendosi nelle realtà ecclesiali e umane, sia in Italia che in missione.
Arrivata nel Paese africano nel 1976, si è occupata dapprima delle famiglie povere, poi di ex bambini soldato, in seguito di alfabetizzazione delle donne. «Infine – dice –, è cominciata la mia “terza vita”…». «Un giorno – racconta –, il 22 gennaio 2002, mi si sono presentate alcune ragazze della Scuola di studi sociali. Mi hanno portato un gruppo di nove bambine che erano finite in strada per l’accusa di stregoneria. Che dovevo fare, lasciarle a dormire sotto un cartone? Pensai che forse era un segno dall’Alto. E dissi di sì alle ragazze della Scuola sociale e, credo, anche al Signore».
Ha cominciato così la sua “terza vita”. La sera stessa le sistema di fortuna in una piccola casa: quella che oggi è Ek’abana. «Be’ – dice con l’immancabile sorriso –, col tempo l’ho sistemata e allargata un pochino». In soli due mesi, si aggiungono altre trenta ragazzine: il fenomeno stava esplodendo. Oggi Ek’abana ne ospita una quindicina. Il loro numero cambia in continuazione, perché l’accoglienza nella casa è solo una fase, la prima, del percorso di recupero. Ognuna di loro ha bisogno di una famiglia, e ciascuna è un caso a sé: per alcune va recuperato il rapporto con i genitori e i fratelli, per altre occorre trovare nonni, zie, cugini che si occupino di loro. E devono studiare, imparare un mestiere. Da Ek’abana, in questi 17 anni, ne sono passate più di 400, che oggi sono tornate a una vita “normale”. Ma la casa d’accoglienza ospita anche una ventina di altri piccoli sfortunati: bambini piccolissimi, abbandonati od orfani. Ad altri 1650 suor Natalina paga la scuola.
Ferite indelebili
La minuta ma tenace missionaria, insieme alla ong di Lodi Mlfm (Movimento Lotta Fame nel Mondo) che la sostiene, ha messo in piedi una fitta rete di solidarietà con la quale, oltre alle risorse per Ek’abana e le rette scolastiche, realizza anche corsi di sartoria e di avviamento al lavoro. Non solo. Per mille vie diverse, arrivano i fondi per il personale della Casa e per gli operatori sociali che seguono le ragazze nelle famiglie e collaborano con la Polizia dei bambini per sensibilizzare la popolazione contro le violenze, i maltrattamenti e le accuse di stregoneria verso i minori.
La domenica, dopo la messa, assistiamo a un incontro organizzato da Ek’abana insieme agli agenti nel quartiere periferico di Nyantende: la sala è gremita, cinquecento persone ascoltano e fanno domande. Qui, di recente ci sono stati due casi: Alice, figlia di una ragazza madre lasciata a crescere dalla nonna, e Antoinette, torturata con ferri e acqua bollente in una camera di preghiera. Entrambe accusate di sorcellerie. Alice deve la vita a un operatore di Ek’abana che l’ha messa al sicuro dalla folla inferocita; Antoinette a una zia, accorsa a salvarla prima che fosse buttata nel lago dentro un sacco.
L’ultima arrivata è Françoise. Viene dalla città di Shabunda e si porta dentro un’altra terribile ferita: è stata violentata, a soli 10 anni, dopo aver visto uccidere sua mamma. Curata nel vicino ospedale di Panzi dal dottor Denis Mukwege (il premio Nobel per la Pace 2018), è stata portata poi a Ek’abana. «Il suo trauma è profondo – spiega Natalina –. Solo da poco ha ricominciato a parlare un po’. Ci vorrà tempo perché riesca a metabolizzare quello che le è accaduto». La chiave è la “terapia del perdono”. «Quando queste bambine riescono a perdonare il male subìto – aggiunge – so che il loro caso si risolverà bene». Questa è una certezza, per sorella Natalina. E la rimarca col suo immancabile sorriso.
(testo di Luciano Scalettari – foto di Francesco Cavalli)