Angola, l’isola fantasma

di claudia

di Afonso Carlos de Sousa

Spedizione nel sud dell’Angola alla scoperta dell’incredibile Ilha dos Tigres e del suo villaggio disabitato e spettrale. Situata al largo del deserto del Namib, nel profondo sud dell’Angola, Ilha dos Tigres è un luogo enigmatico, ricco di storia, tra i più inaccessibili del continente. Per oltre un secolo quell’avamposto estremo è stato abitato da una comunità di pescatori e avventurieri, isolata da tutti, capace di affrontare con tenacia ogni genere di avversità e sventure

Dalle acque dell’oceano, avvolta nella foschia, affiora la punta di un campanile. Sembra un’illusione ottica. Forse uno scherzo della luce solare che si riverbera sulle onde. A mano a mano che ci si avvicina con la barca, si materializza un’intera città sospesa nel nulla. È il villaggio fantasma di São Martinho dos Tigres, un luogo incredibile, enigmatico, tra i più inaccessibili dell’Africa.

Siamo nel profondo sud dell’Angola, a circa dieci chilometri dalla costa. Arrivare fin qui è un’impresa. Tombwa, l’ultima città, si trova cento chilometri più a nord. In mezzo c’è un’enorme distesa di sabbia infuocata: il deserto del Namib. L’unica via di collegamento è rappresentata da uno stretto corridoio costiero incuneato ai piedi delle dune, alte più di cento metri, che si gettano a picco nell’oceano. Ma è una pista percorribile in fuoristrada solo in determinate condizioni di bassa marea, che si verificano due volte al mese, durante la luna nuova o piena. In quei due giorni, per sole tre ore, il livello dell’acqua si abbassa a sufficienza per consentire il transito del famigerato Doodsakker (“Sacco della morte” in lingua afrikaans), un nastro di sabbia largo pochi metri che si srotola per quasi cento chilometri, là dove il deserto si tuffa nell’Atlantico.

Bisogna sfrecciare veloci prima che la marea torni a salire, ma occorre prestare la massima attenzione alla guida perché sulla pista di sabbia molle e insidiosa un incidente o un guasto può risultare fatale, come dimostrano le carcasse di veicoli arrugginiti disseminati sulla battigia. L’ultimo tratto del viaggio, poi, va percorso su un’imbarcazione, perché il villaggio fantasma si trova su un’isola, separata dal litorale da un braccio di mare perennemente agitato e infestato di squali. Insomma l’avventura è riservata ai forti di cuore in cerca di adrenalina. Di tanto in tanto il Flamingo Lodge del Namibe organizza spedizioni per i suoi clienti. L’alternativa – costosissima – è noleggiare un mezzo proprio e accordarsi con un pescatore di Tombwa.

Coloni in fuga

Hic Domus Dei”. “Questa è la casa di Dio”, dice l’iscrizione latina sulla facciata della chiesa avvistata in lontananza. Sembra invece un posto dimenticato da Dio. I muri della cappella, che un tempo erano color giallo pastello, sono scrostati e deturpati da macchie scure. Il sagrato è disseminato di calcinacci e vetri rotti. Appesa alla torre campanaria c’è una grande croce che pare sul punto di crollare. All’interno le travi di legno sono erose dal tempo, la sabbia torrida del deserto sta conquistando gli spazi un tempo occupati dai fedeli. C’è un silenzio irreale. Il vento sibila tra le finestre. Tutt’attorno non si vede anima viva.

Gli ultimi cristiani se ne sono andati una cinquantina di anni fa. Correva l’anno 1975. L’Angola aveva da poco conquistato l’indipendenza e stava per precipitare in una sanguinosa guerra civile che sarebbe durata decenni. I coloni portoghesi residenti sull’isola ebbero giusto il tempo di fare le valigie e tornare in patria. La fuga precipitosa fu l’epilogo amaro di una comunità che per oltre un secolo aveva resistito nell’ultima frontiera della colonia, isolata da tutto, affrontando con tenacia le avversità dell’ambiente e le sventure della storia.

Tigri e pesci

Nei vecchi portolani quel luogo inospitale compariva con il toponimo di “Baía dos Tigres”. Perché fu battezzato così? Forse per via delle striature di sabbia ocra e gialla delle dune che ai primi navigatori europei dovettero ricordare il manto della tigre. Forse per il vento che sferzava le dune sulla costa, emettendo un suono che ricordava un ruggito. O forse per l’avvistamento di grossi felini che un tempo popolavano la regione. Se l’origine del nome del luogo resta avvolta nella leggenda, la storia della fondazione dell’insediamento coloniale è stata scritta con il sacrificio da uomini arditi, giunti nel 1860 dall’Algarve, la regione più meridionale del Portogallo, attratti dalle pescosissime acque della zona.

Furono loro, avventurieri e pescatori, a costruire le prime abitazioni su una sottile striscia di terra che si allungava nell’oceano formando una grande baia. Il mare era generoso, le reti da pesca si gonfiavano garantendo il cibo e promettendo prosperità. L’acqua potabile giungeva in grosse botti caricate sulle navi che periodicamente attraccavano nei pressi del villaggio per ritirare il pesce essiccato e salato. In poco tempo il centro abitato si consolidò. Le baracche di legno divennero case di pietra e cemento. Nell’arco di qualche decennio sorsero negozi, uffici amministrativi, locali, stabilimenti e magazzini. L’olio e la farina di pesce rifornivano i mercati di Lisbona, novemila tonnellate esportate ogni anno, per la fortuna degli armatori e degli amministratori della colonia. Gli affari andavano a gonfie vele e ciò spingeva le autorità portoghesi a investire in quell’estremo avamposto che incarnava l’indomita determinazione dell’impero lusofono.

namib

Lontani da tutto

L’abnegazione dei pionieri fu premiata alla fine degli anni Cinquanta con l’arrivo dell’acquedotto: fu costruita una stazione di pompaggio che aspirava l’acqua potabile dalla foce del fiume Cunene, cinquanta chilometri più a sud, al confine tra Angola e l’attuale Namibia, e la convogliava in tubature fino alle case dei pescatori. L’arrivo di nuovi lavoratori immigrati coi loro famigliari – e di decine di galeotti condannati ai lavori forzati – impressero un’accelerazione allo sviluppo del villaggio. Attorno alla chiesa sorsero una scuola, un ambulatorio infermieristico, un posto di polizia, uno sportello bancario, un ufficio telegrafico, un paio di locande, persino un cinema. Secondo i registri anagrafici del 1960, il momento del suo massimo splendore, São Martinho dos Tigres contava più di 1.500 residenti: in gran parte manovali impiegati nell’industria ittica. Il lavoro era duro, le condizioni ambientali non certo facili, ma il senso di solitudine aveva cimentato la coesione degli abitanti destinati a vivere in un mondo sospeso tra le dune roventi del Namibe e le acque gelide della corrente oceaniche del Benguela, lontani da tutto.

Il villaggio era sprovvisto di un porto, poiché le forti correnti e il basso fondale non permettevano l’attacco delle navi che, pertanto, erano costrette a gettare l’ancora a distanza. Una volta a settimana, la strada principale del villaggio si trasformava in pista di aeroporto. L’arrivo dei velivoli provenienti da Moçâmedes, il capoluogo della regione, era un avvenimento atteso con trepidazione dalla popolazione, che accorreva numerosa per dare il benvenuto all’equipaggio. Quei piccoli aerei – gli unici mezzi che potevano rompere l’isolamento dei pescatori – trasportavano pacchi di posta, carne e verdura fresca, nonché un medico che avrebbe visitato per poche ore i malati e, in caso di emergenza, si sarebbe occupato del loro trasferimento in un grande ospedale.

Il decollo del velivolo, dopo poche ore, faceva ripiombare il villaggio nel suo torpore. Le giornate degli abitanti erano scandite dalla luce del sole e scorrevano in un’atmosfera rarefatta seguendo il ciclo delle maree che governava il lavoro dei pescatori.

Notte di tempesta

La vita della comunità fu sconvolta per sempre tra il 14 e il 15 marzo 1962. Quella notte, São Martinho dos Tigres fu investita in pieno da una terrificante tempesta tropicale. Onde alte fino a dieci metri e venti tumultuosi flagellarono il centro abitato, che ben presto rimase isolato, in balia della furia della natura. Per diverse ore le case tremarono sotto la forza devastante delle raffiche – di aria e di acqua – che sprigionavano un’energia inaudita. Sembrava la fine del mondo. Nel buio della notte, impossibilitati a scappare o a lanciare richieste di aiuto, gli abitanti del villaggio non poterono fare altro che attendere la fine della burrasca, implorando la salvezza da Dio.

Le loro preghiere furono esaurite, ma l’indomani fecero una scoperta tremenda: la mareggiata aveva sconvolto il paesaggio, portandosi via un pezzo della baia, troncando la lingua di terra che collegava il villaggio alla costa. Erano completamente accerchiati dalle acque dell’Atlantico. Baía dos Tigres era diventata un’isola: Ilha dos Tigres. La burrasca aveva spezzato e irreparabilmente distrutto la condotta dell’acqua potabile. Per São Martinho fu l’inizio di un lento ma inesorabile declino.

I pescatori, certo, non si diedero per vinti. Tornarono ad approvvigionarsi di acqua potabile con le taniche trasportate dalle navi. Ricostruirono gli edifici andati distrutti e rimisero in attività le fabbriche che lavoravano il pesce. Ma l’isolamento reso ancora più estremo dall’oceano convinse centinaia di persone ad andarsene per cercare fortuna altrove. E anche gli ultimi irriducibili residenti furono costretti a partire, per sempre, con la disgregazione dell’impero coloniale.

Paesaggio spettrale

Oggi, quello che rimane di questa incredibile storia è un villaggio completamente isolato e disabitato, ricoperto da una patina ocra. In piedi, sull’Isola delle Tigri, restano decine di edifici pericolanti con le finestre sventrate, i tetti sfasciati, i muri crivellati, gli intonaci scrostati. Ai lati del viale principale lastricato di pietre si riconoscono le case dei pescatori, le botteghe, i magazzini, il vecchio cinema, il nosocomio, le ville signorili dei funzionari… L’intero paese sembra essere stato colpito da una maledizione che ha annientato i suoi abitanti. Nei palazzi pubblici sono ancora rinvenibili gli stemmi del Portogallo, uniche vestigia coloniali sopravvissute fino ad oggi. Vandali e razziatori hanno deturpato e saccheggiato ciò che restava di valore. Il resto lo ha fatto il tempo. Il faro che dominava l’isola è collassato. Sul villaggio deserto ora troneggiano la torre dell’acquedotto, il campanile della chiesa e le ciminiere delle fabbriche del pesce cadute in rovina.

È un paesaggio spettrale, eppure quei ruderi fatiscenti sprigionano il fascino ipnotico dei luoghi ricchi di memoria. Sembra di vedere ancora le famiglie dei pescatori assiepate la sera sotto i porticati delle verande, sulle scale d’ingresso delle abitazioni, a chiacchierare, a contemplare il cielo stellato, ad ascoltare le onde in quel posto fuori dal mondo.

Leggende e superstizioni

Gli unici esseri viventi rimasti sull’isola, lunga 35 chilometri e larga 10, oggi sono gli animali: fenicotteri, cormorani, pellicani, foche e tartarughe si dividono il pescosissimo mare con delfini e squali. Da anni il governo di Luanda annuncia progetti per restituire nuova vita a Ilha dos Tigres. Dapprima le autorità avevano pensato di trasformare l’isola in una prigione di massima sicurezza, poi in una sorta di Las Vegas o in un complesso turistico di lusso, infine in un approdo per i pescherecci industriali. Progetti tutti naufragati. Al momento non c’è traccia delle tante opere ambiziose previste sulla carta: un nuovo acquedotto, l’aeroporto, gli impianti eolici e di desalinizzazione dell’acqua. L’incuria ha lasciato libertà assoluta alla natura, che a poco a poco ha riconquistato i suoi spazi in un’area che lambisce il Parco Nazionale di Iona e che presto potrebbe diventare una riserva marina.

L’isola è avvolta da leggende e superstizioni. Gli spiriti dei defunti seppelliti nel piccolo cimitero si agiterebbero nelle notti di luna piena. Alcuni pescatori della regione, spintisi nelle acque circostanti con le loro barche, hanno raccontato di aver sentito risuonare le campane della vecchia chiesa. Sinistri presagi di nuove tempeste. Verrebbe da crederci, visto il forte vento che soffia da queste parti, in grado di muovere anche batacchi di metallo. Ma le campane sono state rimosse anni fa dal campanile che, muto, spunta dalle basse nebbie, segnalando in lontananza ai marinai la posizione dell’isola fantasma.

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