di Céline Camoin – foto di Tommy Trenchard / Panos Pictures
A più di vent’anni dalla fine della guerra civile, l’Angola è ancora alle prese con l’incubo delle mine. Siamo andati a vedere come procedono le attività di bonifica. Gli sminatori di “Halo Trust” hanno già distrutto quasi centomila ordigni, ma restano da bonificare ampi territori, in un Paese vasto quattro volte l’Italia. Il loro lavoro è una corsa contro il tempo: ogni giorno nel mondo periscono nove persone a causa mine
«Quando uno sminatore trova un ordigno e lo distrugge, salva vite». Rita Kassova Kachiponde Vambi, angolana, lavora per “Halo Trust” da un anno e mezzo. È diventata comandante di sezione, e fa parte di circa 100 donne sminatrici impiegate dalla ong anglo-statunitense (Hazardous Area Life-support Organization) fondata nel 1988 dalla coppia Colin e Susan Mitchell e da Guy Willoughby alla fine della guerra in Afghanistan, dove la presenza delle mine fu causa di una grave crisi umanitaria. «Sono entrata in Halo perché volevo aiutare il mio Paese. Halo Trust è una scuola di vita. Mi ha fatto cambiare molto, in termini di conoscenze, di impegno, di lavoro. Ho potuto dimostrare il mio potenziale e allo stesso tempo avere una retribuzione che aiuta la mia famiglia. Ed è lo stesso per tutte le angolane che sono coinvolte in questo progetto», spiega Rita.
Il progetto “100 donne nello sminamento in Angola” sta formando squadre di sole donne per ripulire dalle mine antipersona, conferendo competenze, reddito e status, creando al contempo un futuro più sicuro per il loro Paese. L’obiettivo è inoltre favorire l’integrazione di donne in un ambiente di lavoro di solito prettamente maschile. Donne che non sono riuscite a trovare un’occupazione dopo gli studi hanno potuto raggiungere Halo Trust e imparare non solo a sminare ma anche attività paramediche o di meccanica. Lavorano in alcune delle aree più remote e povere dell’Angola, contribuendo a far cambiare l’immagine e il ruolo della donna nella società. Luciana, una delle sminatrici, avverte un maggior rispetto nei propri confronti, perché è risaputo che il lavoro che svolge non è affatto semplice.
Paradiso minato
Halo Trust attualmente impiega quasi 700 uomini e donne locali in Angola, dove sta partendo una nuova sfida, in collaborazione con il governo, per bonificare le terre delle sorgenti dell’Okavango, un sito classificato patrimonio mondiale che fa parte della Kavango-Zambezi Transfrontier Conservation Area (Kaza), condivisa da cinque Paesi. In quell’area, le mine rendono quasi impossibile la conservazione e la protezione dell’habitat, mentre il bracconaggio della fauna selvatica è diffuso. «Eliminando le mine, possiamo gettare le basi per uno sviluppo guidato dalla conservazione, consentendo alla fauna selvatica e alla popolazione locale di prosperare», spiegano i promotori.
Dal 1994 Halo Trust ha distrutto quasi 100.000 mine in Angola. Inizialmente ci si è concentrati sulla rimozione degli ordigni nelle città e nei capoluoghi regionali, come Huambo, che la principessa Diana visitò nel 1997 e che oggi è una città fiorente. «Proteggiamo le persone insegnando l’educazione al rischio, prevenendo incidenti devastanti come quello di Manuel – un ragazzino di otto anni che ha perso mezza gamba nell’esplosione di una mina – finché non saremo in grado di rimuovere tutte le mine e gli esplosivi per sempre», dichiara Halo Trust. In collaborazione con la polizia e l’esercito angolani, le squadre dell’ong hanno distrutto anche migliaia di armi indesiderate e tonnellate di munizioni, riducendo il rischio di violenza armata o di esplosioni fuori controllo.
Tre dita mozzate
Da Roma, dove fa parte della diaspora angolana, Alexandre Vunda esprime gratitudine per il lavoro svolto dai team impegnati nella rimozione dei resti di armi da guerra. Vunda, classe 1981, fa parte della generazione di angolani nati durante il conflitto tra le truppe governative dell’Mpla e quelle rivali dell’Unita, e dei rispettivi alleati internazionali (principalmente Sudafrica e Zaire con i ribelli, Cuba e Unione Sovietica con i governativi).
Vunda è una delle vittime civili collaterali di questo micidiale conflitto (iniziato nel 1975 e continuato, con alcune interruzioni, fino al 2002). Tre dita della sua mano destra sono state mozzate da un oggetto esplosivo abbandonato a terra, in piena città. «L’incidente è successo nel 1991, in un periodo di tregua dopo gli Accordi di pace di Bicesse. All’epoca vivevo con la mia famiglia a N’dalatando, capoluogo della provincia di Cuanza Norte», racconta ad Africa. All’epoca, le truppe governative erano raccolte nei quartieri generali e nelle basi militari. Alexandre aveva dieci anni e, come tutti i maschietti cresciuti con la guerra, era abituato non solo a vedere armi o munizioni, a trovarne, ma anche a maneggiarle. «Nel nostro quartiere c’era una base militare. Non so come fosse possibile, ma noi trovavamo oggetti che sembravano scarti di ordigni dappertutto attorno alla base. Avevamo addirittura imparato a maneggiarli.
Per noi era un gioco, ci sfidavamo, volevamo fare i duri, ed eravamo tutti curiosi. Pensavamo tuttavia che fossero scarti non funzionanti». Quel fatidico giorno, Alexandre fa una mossa sbagliata. L’esplosivo gli scoppia in mano. Un boato, polvere, Alex sviene. Al risveglio, si trova ricoverato in ospedale. Fu l’inizio di un calvario di ben sei mesi. «La mia mano era compromessa. I medici volevano amputare le dita completamente. È stato solo su insistenza di mio padre che alcune parti delle dita sono state salvate». Un’infezione post-operatoria ha reso tutto più complicato e pericoloso. «I medici non riuscivano a guarirmi. Sono stato anche costretto a cambiare ospedale. Ma ce l’ho fatta, e adesso sono qui», si scioglie in un sorriso.
«Made in Italy»
Secondo le stime ufficiali del governo angolano, circa il 90% del territorio sarebbe stato bonificato dalle mine. Il lavoro svolto è stato immenso, anche grazie agli sforzi delle autorità. Ma è una stima difficile da accertare. «Siamo fra i dieci Paesi più minati al mondo. Alcuni miei cugini e zii erano soldati, che ci raccontano di aver piazzato mine in vaste aree remote, nelle foreste, vicino ai fiumi per impedire l’attraversamento… Minare era un’attività costante».
Molte mine sono state piazzate nell’est del Paese, dove l’Unita aveva occupato ampie fette di territorio, ma anche nei dintorni di Luanda, per proteggere la capitale dalle possibili avanzate ribelli. Tra le mine, numerose quelle di fabbricazione italiana (il nostro Paese le ha messe al bando nel 1997, leggi box sotto). «Lo leggevamo sulle etichette, erano mine italiane», alcune dalla fabbrica di armi di Terni, riferisce Vunda. «Non so come si siano ritrovate in Angola, tra l’altro anche durante il periodo di embargo sulle armi imposto dalla comunità internazionale, ma posso immaginare che sia stato il frutto di un traffico illecito, che forse passava dall’Est europeo, in particolare dall’Ucraina. So soltanto che nelle vie ufficiose esistevano trafficanti che vendevano armi sia all’Unita che alle forze governative».
A oltre vent’anni dalla fine della guerra, il fenomeno passerebbe quasi inosservato, se non fosse per le organizzazioni come Halo Trust. Il gruppo è impegnato nella campagna “Landmine Free 2025” che mira a eliminare entro due anni il terribile impatto delle mine antipersona dalla vita delle persone e a mantenere la promessa della Convenzione di Ottawa del 1997 sulla messa al bando delle mine.
Questo articolo è uscito sul numero 3/2023 della rivista Africa. Per acquistare una copia clicca qui, o visita l’e-shop.
Una lunga battaglia per sbarazzarsene
L’Italia – che per lungo tempo è stata tra i principali produttori di mine antipersona – ha messo al bando nel 1997 questi micidiali ordigni, vietandone la fabbricazione, la vendita, l’esportazione e l’importazione. A seguito di una vasta mobilitazione della società civile, il Parlamento italiano si è impegnato a rinunciare a queste armi definitivamente, estendendo al dicembre 2021 il divieto di finanziare i produttori di mine antipersona e bombe a grappolo. A livello internazionale Convenzione di Ottawa (1997) e Convenzione sulle Munizioni Cluster (o bombe a grappolo, 2008) hanno messo fuori legge queste armi subdole, che tuttavia continuano a esplodere e a uccidere. Ogni anno, vengono orribilmente ferite delle mine circa 7.000 persone, e per il 92% si tratta di civili – c’è chi le chiama «vittime collaterali». Metà di loro perde la vita: 9 persone al giorno (erano 25 nel 1999). Il Landmine Monitor Report conta il numero complessivo di vittime nel mondo e calcola, per difetto, più di 130.000 vittime di mine o di residuati bellici esplosivi. Il numero più alto si registra nei Paesi coinvolti in conflitti armati: in particolare Afghanistan, Mali, Myanmar, Siria e Ucraina. Al momento, sono oltre 55 milioni le mine negli arsenali che sono state distrutte, e 30 Paesi si sono dichiarati liberi dalle mine, ultimi in termini di tempo, lo scorso anno, il Cile e il Regno Unito. Restano al mondo 60 Paesi inquinati da mine e/o munizioni cluster: le operazioni di bonifica delle aree minate durano decenni. Sono 34 gli Stati che ancora detengono scorte di mine e 32 quelli che non hanno aderito alla Convenzione di Ottawa (tra i più importanti, mancano all’appello Stati Uniti, Russia, India e Cina).
In Angola – uno dei Paesi africani che dall’indipendenza, nel 1975, ha vissuto più anni di guerra che di pace – la guerra civile è terminata nel 2002, ma le mine antipersona sono tutt’oggi presenti in aree del suo vasto territorio
Questi dispositivi letali, nascosti sotto terra, sono stati utilizzati massicciamente da entrambi gli schieramenti rivali per impedire l’avanzata del nemico
Difficile, oggi, avere una mappatura precisa delle centinaia di migliaia di esplosivi in Angola, che si aggiungono a quelli lasciati anche durante la precedente guerra, quella per l’indipendenza dal Portogallo, di cui sono stati protagonisti diversi movimenti ribelli tra il 1961 e il 1975