Quei due turisti francesi rapiti in Benin, come tanti altri, non se la sono andata a cercare. Sono andati a fare una vacanza, in un posto tranquillo dove transitano tantissimi visitatori ogni anno. E a loro spese hanno capito che qualcosa anche lì sta cambiando
Come molti di voi avranno letto, due turisti francesi sono scomparsi il 1° maggio durante un safari nel parco nazionale di Pendjari, vicino al confine con il Burkina Faso in Benin, molto probabilmente rapiti, e la loro guida è stata ammazzata.
Però no, non «se la sono andata a cercare». Perché dico questo? Perché sempre più spesso a notizie di questo genere fanno seguito commenti sui social che tendono a puntare il dito contro i malcapitati che pare siano andati in territori africani proprio nel tentativo di ritrovarsi in qualche brutta avventura. Eppure, come nell’esempio dei turisti francesi – pare due insegnanti – c’è chi si reca in Africa non con l’animo di novelli Indiana Jones, ma con l’idea di farsi una pura e semplice vacanza.
I commenti sono ancora più spietati quando di tratta di giovani che vengono rapiti – vedi il caso di Silvia Romano – mentre si trovano lì per volontariato. Tralascio la questione di Silvia Romano perché può fare entrare in gioco questioni di sicurezza, o magari di superficialità, di organizzazioni che mandano in Africa ragazzi allo sbaraglio. Anche in questo caso, comunque, non sono avvenimenti prevedibili e prevenibili come qualcuno sembra pensare.
Per quanto riguarda i turisti rapiti mi sembra che si passi la misura. In cosa sbagliano le persone che in Africa vengono derubate, fatte oggetto di scam (truffe pianificate, ndr) ed estorsioni o rapite? Dovevano restarsene a casa loro? Dovevano sapere che in Africa (perché, altrove no?) può succedere di tutto? Dovevano andarsene con frotte di 20-30 persone come delle pecorelle? (A proposito, proprio recentemente un amico mi ha raccontato che in un gruppo così composto sì è inserito il lupo e ha portato via i beni di alcune dei turisti che viaggiavano in gruppo).
Insomma, non mi sembra che i due turisti siano andati in un luogo controllato da guerriglie e gente affamata di violenza. L’area dove sono stati rapiti – nei pressi del parco nazionale Pendjari, poco lontano dalla frontiera con il Burkina Faso – è un luogo tranquillo. Il Benin è una zona tranquilla. Sono arrivata a quella frontiera, riuscendo a toccare con lo sguardo i confini di quel parco lo scorso anno. Io, mio marito, una guida e un autista locali. Perché mai avrei dovuto avere paura? Perché mai non bisogna viaggiare in Africa? Le accortezze sono ovvie, e riguardano l’Africa – anche territori non problematici – così come qualsiasi altro luogo al mondo.
È in atto il tentativo (giustissimo) da parte di chi si occupa del continente – giornalisti, saggisti, commentatori – di offrire di questo altri aspetti. Di destrutturare un tipo di letteratura che vuole il continente abitato da incivili, poveri e sempre in guerra tra loro. L’Africa è un luogo di viaggi, di crescita del turismo e del Pil (sì, proprio in quest’ordine). È un luogo in cui la gioventù ha voglia di parlare con l’altro, mischiarsi con l’altro e farsi strada nell’economia dei propri territori.
Proprio in quell’area ho conosciuto un giovane che ha messo su una piccola attività di ricezione e accoglienza che in un anno è cresciuta tanto grazie ai suoi soli sforzi. Perché non dare fiducia a queste persone? E perché – altra faccia della medaglia – colpevolizzare chi incappa in una brutta, bruttissima avventura? Avrebbero dovuto viaggiare con mezzi blindati quei due turisti? (O altri che come loro hanno subito o stanno subendo la medesima esperienza). Avrebbero dovuto starsene a casa? E perché? Perché l’Africa è insicura, cattiva, pronta a farti male? Allora è come dice quella letteratura che vogliamo così tanto superare.
Sì, in Africa possono succedere queste cose. Perché dà fastidio vedere gente in pick-up se tu vai sempre e solo a piedi. Perché dà fastidio sapere che c’è chi ha passaporti che sono lasciapassare per il mondo intero mentre tu hai in mano carta straccia. Perché la rabbia – o anche l’avidità – sono una forte spinta al crimine. Forse un atteggiamento più pacato porterebbe a condannare il crimine (qualunque siano le motivazioni sociali che lo agitano) e non le vittime. Sarebbe più pacato accettare che dobbiamo cominciare a confonderci con gli altri quando viaggiamo in Africa, invece che mostrarci diversi. Aumenterebbe il rischio? Non so.
Quel «se la sono andata a cercare» quando si parla di rapimenti o brutte avventure è triste. Fortifica quel Noi e Loro, Buoni e Cattivi, Ricchi e Poveri e pure Fessi e Furbi che non aiuta l’incontro. Non aiuta a normalizzare i rapporti umani con l’Africa e con gli africani di cui abbiamo davvero bisogno. Altrimenti questi fatti aumenteranno. Anche in aree considerate sicure, come in quest’ultimo caso.
Noi dall’Africa continuiamo a volere e a prendere. Ognuno quel che può. Lo stesso avviene lì. A volte con mezzi deprecabili e criminali. Ma non credo che quei due turisti, come tanti altri, se la siano andata a cercare. Sono andati a fare una vacanza, in un posto tranquillo dove transitano tantissimi visitatori ogni anno. E a loro spese hanno capito che qualcosa anche lì sta cambiando. In Benin come in Burkina Faso, prima modelli di pace e accoglienza. È su questo che dovremmo interrogarci. Sul perché l’estendersi di instabilità e violenze. Che fa male a tutti, a noi e a loro. Tutti vittime, alla fine, di quel qualcosa che non va e che andrebbe capito meglio.
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Antonella Sinopoli. Giornalista professionista e videomaker, è cofondatrice e direttrice responsabile di Voci Globali. Scrive di Africa anche su Ghanaway. Ha fondato il progetto AfroWomenPoetry con l’obiettivo di dare spazio e voce alle donne poete africane. Vive tra il Ghana e l’Italia.