Alienati dai prodotti della terra nelle grandi città, in un mondo globalizzato che ci presenta in tavola alimenti coltivati spesso in luoghi molto distanti da noi, quanti di noi occidentali hanno mai visto per esempio il fiore o la pianta dell’arachide? Con Sapori d’Africa oggi viaggeremo di nuovo nel villaggio senegalese di Kagnarou, dove il nostro amico Vieux, che ci tiene compagnia di tanto in tanto mostrandoci alcuni prodotti della brousse o coltivati nei campi della rigogliosa (quanto economicamente povera) Casamance, ci spiegherà qualcosa sull’arachide. Prima, però, faremo un passo indietro con qualche informazione sul ruolo che questo sfizioso e per noi “esotico” frutto secco ha giocato e svolge tuttora nella storia e nell’economia del Senegal, uno dei maggiori produttori ed esportatori al mondo (dopo Cina, Stati Uniti e Nigeria). Proprio questo Paese era stato prescelto infatti dall’ex governo coloniale francese per adottare la coltivazione dell’arachide come monocultura. Mangiar “bene” e in modo eticamente corretto, infatti, significa anche conoscere la storia degli alimenti e di chi li produce.
Monoculture: una condanna imposta
L’arachide costituisce un esempio lampante di come da un frutto della natura possa dipendere la sorte di popolazioni e l’economia stessa di Paesi interi, come purtroppo spesso è accaduto in Africa. Vivendo in Occidente in Paesi dalle economie più o meno forti, ma comunque per lo più differenziate, ci è forse più difficile concepire il problema che ha investito dall’epoca coloniale mote zone dell’America Latina, dell’Asia e dell’Africa. I colonizzatori hanno infatti imposto la “specializzazione” di determinate colonie nella coltivazione di un singolo prodotto agricolo che in madrepatria non avrebbero potuto coltivare per ragioni climatiche, e da cui si sarebbero arricchiti destinandoli alla vendita del mercato europeo prima e internazionale poi. All’Africa Orientale, ad esempio, toccò il caffé, mentre a quella Occidentale, tra gli altri, furono destinate il cacao al Ghana e l’arachide al Senegal: alimenti che spesso non erano nemmeno endogeni, ma introdotti dall’estero dai colonizzatori stessi. Così facendo, mentre i terreni in questione si impoverivano a causa della coltivazione intensiva di un solo prodotto, i colonizzatori hanno legato le economie di quei Paesi e i destini di milioni di contadini alle fluttuazioni dei prezzi di mercato di quell’unico prodotto, con le drammatiche conseguenze tradotte in ondate di picchi di povertà della popolazione coinvolta.
In Senegal, dal colonialismo a oggi
In Senegal, la produzione di arachide, di origine sudamericana, iniziò la sua espansione dalla seconda metà del XIX secolo nel cosiddetto territorio settentrionale del Cayor e del Walo (prima di Dakar, la città di Saint Louis fu la capitale dell’intera AOF, l’”Africa Occidentale francese”, fino al 1914), potenziata poi dalla prima ferrovia (finita di costruire nel 1885), che ne permetteva il trasporto verso il porto, sotto le direttive del governatore francese Faidherbe. Progressivamente, anche la zona centrale del Paese (Baol) divenne il bacino arachidiero, legando la sua espansione alla grande influenza che i marabut della confraternita murid avevano nelle campagne e al lavoro che i loro talibè (discepoli) svolgevano per loro. Dopo l’indipendenza del Senegal (aprile 1960), l’arachide è rimasta la monocoltura nazionale, base di un’economia che contava e conta tuttora molto sull’agricoltura. La svalutazione del prezzo dell’arachide a livello internazionale nella prima metà degli anni Ottanta diede però la botta di grazia ad un Paese che si trovava già in pesanti difficoltà economiche, indebitato fino al collo e vittima della siccità degli anni Settanta. Più recentemente, vari sono stati i tentativi del governo, insieme anche ad aiuti dell’Ue o della Cooperazione allo sviluppo di vari Paesi, per sottrarre il Senegal alla schiacciante dipendenza dall’arachide, diversificare la produzione agricola, creare biodiveristà e raggiungere l’autosufficienza alimentare (buona parte delle importazioni del Senegal consistono proprio in generi alimentari). Tuttavia, se si va oggi in Senegal, tranne i pochi fortunati che usufruiscono di terreni più fertili per la vicinanza di un fiume o per la presenza di pozzi con pompe a motore efficaci che rendono loro possibile dedicarsi all’ortocultura, le coltivazioni dei contadini nei campi a livello più o meno estensivo seguono le stagioni: i prodotti seminati e raccolti restano l’arachide, il miglio e i fagioli.
Dal fiore al frutto
La semina inizia con l’hivernage, la stagione delle piogge. Quando questa termina, è il momento della raccolta. A sud del Senegal, in Casamance, le piogge iniziano a giugno, e ad agosto già si comincia a raccogliere. L’etnia Diola (o Joola), la più numerosa in Casamance, è nota per la sua ricca vita associativa. Sia a livello familiare, che di quartiere o di villaggio, i Diola sono soliti riunirsi, discutere, confrontarsi e creare dispositivi collettivi di mutuo sostegno. Associazioni di quartiere, di giovani e di anziani animano la vita di villaggio. Come mi spiega Vieux, qui il proprietario di un campo si può rivolgere alle associazioni di quartiere, le ecafaj, per farsi aiutare a preparare i campi prima della semina, togliere le erbacce, seminare, pensare al raccolto, sgusciare le arachidi. I soldi che l’associazione guadagna per questi lavori non saranno utilizzati per pagare direttamente le persone che hanno svolto un determinato lavoro, ma usati insieme agli altri soldi della cassa per finanziare bisogni collettivi della comunità: cerimonie, servizi, infrastrutture. «Far sgusciare le arachidi raccolte può costare tra i 5.000 e i 10.000 Fcfa (tra i 7,5 e i 15 euro) all’ora. L’associazione invia all’opera i suoi giovani, che lavoreranno dalle 8 alle 12: ogni sacco di arachide viene diviso in secchi, e ognuno inizia a sgusciarne uno. Con il tempo, abbiamo imparato a farlo rapidamente. Un altro lavoro che poi ti possono chiedere è quello di separare i frutti buoni, destinati alla semina, dagli altri».
I frutti che non vengono utilizzati per la nuova semina, oltre all’autoconsumo, sono destinati alla vendita. «Ora che non c’è più la Seco, l’agenzia statale che ci acquistava le arachidi, ognuno vende a chi vuole: qui vendiamo alle donne che poi le rivendono, o ai grandi acquirenti che vengono da Dakar. L’unità di misura è rappresentata dai sacchi di riso: quelli più piccoli, di 50 kg, puoi venderli tra i 10.000 e i 12.000 Fcfa (tra i 15 e 18 euro, ndr), quelli più grossi tra i 15.000 e i 20.000». In capitale o nelle città senegalesi si è soliti trovare nei mercati o al ciglio delle strade rivenditici di arachidi, che le vendono in sacchetti da meno di 1 euro, in diverse tipologie: già sgusciate o meno, ancora piccole e un po’ acerbe (geerte bu bess) o mature (geerte thiaff), crude o tostate al momento sul fuoco con la sabbia. Solo una piccola parte di queste arachidi sarà destinata a produrre olio per il mercato locale: la maggior parte, infatti, sarà esportata per il consumo o per fabbricare il burro o l’olio di arachidi usato nel resto del mondo, lasciando ai senegalesi il consumo di olio di soia o di altri oli più grezzi e nocivi per la salute.
Il legume dai mille nomi, principi nutritivi e ricette
Chiamate anche spagnolette, giapponi, cecini, bagigi, scachetti, caccaetti e, in spagnolo cacahuete, (parola che deriva da un termine in nahuati, lingua originaria della popolazione azteca, che significa “cacao della terra”), l’arachide appartiene alla famiglia delle Leguminose, e possiede numerosi principi nutritivi, ricca com’è di proteine, vitamine, acido folico, coenzima Q10 (valido aiuto, pare, contro il mal di testa), fibre e sali minerali: le arachidi risultano avere dunque proprietà benefiche antiossidanti, stimolerebbero la fertilità (importanti durante la gravidanza), preserverebbero la bellezza della pelle e ridurrebbero il rischio di morte per le malattia cardiovascolari.
Inutile dire che le arachidi, frantumate e eventualmente trasformate in una pasta, sono alla base di alcuni piatti della cucina senegalese. Ma questa è un’altra storia, e lo scopriremo più avanti nelle prossime puntate.
(testo, foto e video di Luciana De Michele)