Archeologia industriale africana, un patrimonio da tutelare

di claudia

di Mario Ghirardi

In Sierra Leone, in Egitto, Algeria, Nigeria, Etiopia stanno nascendo i primi segnali di sensibilità verso l’Archeologia Industriale, materia di studio che nelle università europee ed americane ha ormai da anni trovato cattedre specializzate, fautrici di interessantissime ed innovative ricerche.

Come sintetizza bene la denominazione, con Archeologia Industriale si intende l’analisi e la conseguente tutela di tutti i manufatti legati alla prima espansione industriale e poi abbandonati perché non più rispondenti alle esigenze delle nuove produzioni, proprio come per archeologia si intende in generale il recupero di oggetti, di edifici e di insediamenti risalenti alla plurimillenaria storia delle civiltà. Non parliamo in questo caso però solo di edifici e degli obsoleti macchinari eventualmente ancora conservati al loro interno dopo l’abbandono, ma anche delle tecniche di produzione che davano vita a quelle fabbriche.

Se però in Europa, e specialmente in Gran Bretagna, possiamo risalire nello studio addirittura a fine ‘700 con l’affermarsi della Rivoluzione industriale che cambiò gradualmente il volto di intere città, in tal senso la storia dello sviluppo tecnologico africano si può datare per lo più a partire dai primi decenni dell’800, di pari passo con la nascita delle colonie. I dominatori europei avevano come esigenza prioritaria di costruire nuove e veloci vie di comunicazione per spostare sul territorio uomini e merci in grande quantità. Fu così che le prime opere di forte impegno ingegneristico realizzate furono le strade e i ponti, ma soprattutto le ferrovie, quelle stesse ferrovie che oggi sono alla base delle principali ricerche universitarie compiute in Africa attorno alle vestigia industriali e ne costituiscono il maggior patrimonio da valorizzare e tutelare.

L’Uganda in particolare ha sviluppato in merito una particolare consapevolezza di come le ferrovie abbiano cementato nel tempo addirittura la consapevolezza nazionale e la compattezza delle comunità, oltre ad aver permesso più facilmente l’accesso generalizzato della popolazione all’istruzione. Partendo da queste permesse, gli organismi locali hanno coinvolto nel percorso i loro omologhi europei, cercando sponda in primo luogo nel TICCIH, l’ente europeo coordinatore dei più avanzati studi in merito. Ecco così che con il supporto dell’Unione Europea e dell’Uganda Railways Corporation è stato possibile far nascere a Jinja, città sul lago Vittoria, il Museo delle ferrovie ugandesi, grazie al recupero e restauro delle tante vestigia coloniali rimaste abbandonate in loco, dalle stazioni agli insediamenti operai, dalle locomotive, ai motori ed ai vagoni storici.

Jinja Railway Station

Il Cross Cultural Foundation of Uganda ha collezionato reperti piccoli e grandi, raccolto fotografie e documentato storie di vita, oltre ad aver restaurato la Jinja Railway Station, una delle più vecchie stazioni del Paese, rendendola operativa e facendone un’attrattiva turistica per locali e stranieri, con una sezione pensata per la didattica. Un libro e un filmato reperibili su You Tube sono in questo senso molto significativi nell’illustrare il lavoro e le ricerche compiute.
In Sierra Leone la prima ferrovia fu realizzata dagli inglesi decisi a capire le eventuali potenzialità dell’industria mineraria che si sarebbe poi creata con l’estrazione di oro, bauxite, ferro e diamanti e gli sviluppi dell’agricoltura con la lavorazione dell’olio di palma. La ferrovia chiuse l’attività nel 1975, i vagoni furono venduti per ricavarne ferro, ma parecchie locomotive e carri merce si salvarono dalla distruzione abbandonati come furono in un deposito alle porte di Freetown sino al 2004, quando, dopo undici anni di guerra civile, furono riscoperti da un inglese, e, restaurati, diventarono in poco tempo i protagonisti del museo aperto nel primo ‘compound’ ferroviario di Cline Town nella stessa capitale.

Analoghe vicende si possono raccontare per la Nigeria, dove da quattro anni le organizzazioni locali lavorano con la Oxford University per arrivare ad un simile sbocco utilizzando quanto rimasto nel comparto di Ebute Metta e utilizzando Jaekel House e Ilukve House come museo a Lagos. Qui c’è però di più, in quanto si va oltre al recupero delle ferrovie e infatti si vogliono anche preservare i cospicui resti legati alla lavorazione del ferro già presente in Nigeria e nelle confinanti regioni ad ovest addirittura nel 16° secolo, senza contare i resti sparsi in tutta la nazione e tutelati dall’Unesco, legati alla produzione tessile, alla scultura in bronzo e in argilla e alla lavorazione dei mattoni. Sono queste le testimonianze materiali di una civiltà ignorata e denigrata dai colonizzatori e che ora si intende riscoprire e rivalutare, così come già avviene per il Museo dell’architettura tradizionale nigeriana (MOTNA) e per il Centro per la promozione delle tecnologie di costruzione in terra.
In Etiopia invece la città di Dire Dawa è ricca di grotte dipinte, siti storici, palazzi, chiese, luoghi mercatali eredità del passato, ma che sono, insieme ai resti ferroviari, molto poco conosciuti dalla popolazione locale e abbandonati a se stessi, mentre invece necessiterebbero di urgente protezione che soltanto per ora la Sinergy for Community Development, associazione locale non governativa, sta cercando di stimolare e tutelare contro le continue minacce causate dallo sviluppo dell’edilizia cittadina.

Ancora una citazione va fatta per Zimbabwe e Kenya, dove esistono musei ferroviari rispettivamente a Bulawayo (foto di apertura) e Nairobi, e per Sudafrica, Sudan e Zambia (musei a George, Atbarah e Livingstone). In Egitto qualcosa si sta muovendo a livello scolastico, ma con poca consapevolezza del problema su larga scala, mentre l’indiscriminato sviluppo edilizio delle città pregiudica fortemente l’eredità del passato. Valga per tutti come esempio l’ancora esistente, ma fatiscente e non catalogato deposito di treni di Qabban, vicino ad Alessandria, costruito nel 1855 sotto la supervisione di Robert Stephenson, il celebre ingegnere, prima testimonianza in Africa dell’industria ferroviaria.
Analogo discorso si può fare per l’Algeria, dove va in rovina un patrimonio legato all’industria agricola dismessa di fattorie coloniali, silos, depositi di grano e resti di strade ferrate che nel periodo coloniale, tra il 1830 e il 1962, si svilupparono per più di 5000 chilometri. A Bamako, capitale del Mali, invece sopravvive nell’incuria più totale la massiccia stazione sull’importante linea che, ancora una volta in tempi coloniali, collegava Dakar al Niger.


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