Chi l’ha detto che le abitazioni moderne devono avere muri lisci, linee squadrate e tetti spigolosi? In Africa occidentale c’è chi torna a riutilizzare la tradizionale “volta nubiana”, che permette di costruire case in terra: resistenti, economiche, confortevoli e rispettose dell’ambiente
Dopo la fine della guerra civile in Sud Sudan, nel 2008 venni inviato nel villaggio di Turalei con il compito di progettare una città per i reduci e i pastori dinka. I Dinka son sempre vissuti in curatissime capanne semisferiche, adatte all’orizzonte circolare del nomade. Il tondo, a detta loro, è connesso alla tradizione, alla democrazia, all’apprendimento, alla bellezza. La mia ricerca diede risultati opposti: la maggior parte dei returnees e molti pastori volevano una “casa quadrata”. Un ex-combattente mi disse: «Io vado verso il futuro».
Durante una guerra civile, il settore che collassa è quello delle costruzioni: la società è così concentrata nel distruggere che nessuno investe più in case. E nelle ricostruzioni post-conflitto in genere si fa ricorso a tecniche di edificazione e a modelli abitativi importati dall’Occidente, trascurando e abbandonando le architetture tradizionali. Così si perde l’efficacia delle cose semplici. Mostrando il tetto crollato di una capanna, un reduce dinka mi spiegò: «Mio nonno avrebbe saputo come ripararlo, io no».
Mattoni crudi
Se possiamo paragonare la guerra alla catastrofe ecologica che investe periodicamente il Sahel (alternanza di siccità e inondazioni), allora ben venga la prospettiva offerta dall’Association La Voûte Nubienne (Avn, vedi box …), attiva nell’Africa subsahariana, che guarda al passato per costruire un futuro sostenibile. Il nome deriva dalla cosiddetta “volta nubiana”, una tecnica costruttiva ad archi ogivali che risale all’Alto Egitto del primo millennio a.C. La Voûte Nubienne utilizza esclusivamente mattoni impastati con terra e seccati al sole. La terra cruda è un materiale da sempre usato dalle popolazioni locali, in quanto a disposizione di tutti, ma deve essere ben lavorata e ben assemblata per resistere alle intemperie. Nel Sahel, contrariamente a quanto si creda, piove. E piove con concentrata intensità: ecco perché Avn utilizza pietre per le fondamenta; inoltre, un telo di plastica impermeabilizza il tetto piano a terrazza che rifinisce in alto le volte, su cui è bello dormire nella stagione torrida che precede le piogge. La plastica è l’unico elemento non autoprodotto, nella tecnica della volta nubiana. Ha un costo in denaro, ma incrementa la durata delle costruzioni e il comfort interno.
(S)volta ecologista
La forma della struttura ad archi ogivali di poco più di 3 metri di ampiezza – lievemente modificata rispetto al modello nubiano – si basa sull’uso della curva catenaria rovescia, che si ottiene in modo semplice lasciando pendere per gravità una catenella da due punti fissi. Questa curvatura, sollecitabile solo a trazione, fa sì che le volte nubiane garantiscano solidità alla costruzione, in quanto scaricano assai meglio le forze rispetto alle architravi di legno.
Il Sahel vive una sempre maggiore carenza di legname. Gli alberi si diradano per la desertificazione, naturale e umana: già nel 1972, a Niamey, in Niger, riscontrai che il maggior pericolo ambientale era dato dall’uso di carbonella e legna da ardere da parte delle popolazioni inurbate (un operaio spendeva il 30 per cento dello stipendio in combustibile per uso domestico), cui andavano aggiunti i pali per le case “di città”. La volta nubiana tende al rispetto dell’ambiente e comporta un risparmio economico per le comunità coinvolte, in quanto si evita l’uso della lamiera ondulata d’importazione (meno sicura e confortevole) che va da tempo sostituendo i tetti piani in terra e pali (troppo difficili da mantenere). L’unica voce di spesa sarebbe data dalla forza lavoro; se la casa è autoprodotta si tratta di un investimento; se si dovesse ricorrere a muratori preparati sul posto, si manterrebbe comunque il denaro all’interno dell’economia locale. Al proposito, Avn prevede, tramite metodologie semplici e programmi di apprendimento mirati, la formazione di personale semi-specializzato, il quale sia in grado di accedere a un mestiere per entrare nel mercato edilizio autonomo nei Paesi del Sahel, come da mission e vision di chi opera nell’ambito dello sviluppo sostenibile.
L’architetto napoletano
Sempre nel campo dell’architettura ecosostenibile vale la pena ricordare la straordinaria opera compiuta in Africa occidentale dall’architetto napoletano Fabrizio Caròla, 85 anni, artefice in Marocco, Mali e Mauritania di una serie di edifici pubblici (ospedali, università, centri di accoglienza, mercati, alberghi) che gli hanno valso premi e riconoscimenti importanti. La peculiarità di tutte queste opere sta nel recupero di tecniche costruttive proprie della tradizione locale. Anziché esportare in Africa i modelli costruttivi occidentali, Caròla ha valorizzato e rielaborato lo stile usato nell’antichità nelle regioni in cui si è trovato ad operare, basandosi principalmente su materiali poveri e naturali, disponibili sul luogo.
«Ho abbandonato il cemento armato perché è un pessimo materiale, che costa moltissimo, accumula e poi ritrasmette calore», ha spiegato tempo fa in un’intervista rilasciata al nostro collaboratore Roberto Paolo. «Ho abbandonato vetro e ferro perché in Africa sono inutili, come in tutti i Paesi caldi. Sono elementi di un modello nordeuropeo che è stato trasferito erroneamente anche in Italia. Basti pensare agli uffici nei grattacieli che accumulano luce e calore, dove non si può vivere senza aria condizionata. Un’assurdità. Pareti lisce, spigoli e vetrate sono fatti per Paesi freddi, dove c’è poca luce, sono devastanti invece nel Sud del mondo. Ho abbandonato anche il legno perché il Sahel, dove ho lavorato principalmente, è una zona in via di desertificazione».
Usando mattoni di terra e semplici pietre, Caròla ha costruito gli edifici recuperando gli elementi architettonici della cultura edile nubiana: archi, volte e cupole realizzate con il compasso ligneo (uno strumento ripreso e valorizzato dall’architetto egiziano Hassan Fathy). Un repertorio di forme curve in grado di realizzare soluzioni economicamente vantaggiose, di rapida esecuzione. Funzionali al benessere degli abitanti. «Una cupola è un fascio di infiniti archi – fa presente l’architetto napoletano –. Ognuno annulla la tensione necessaria agli altri per reggersi in piedi, gli archi si compensano a vicenda, così si annullano tutti gli sforzi. La struttura si regge naturalmente, senza forze… Sono convinto, anche se non posso provarlo, che questo ha un’influenza positiva su chi ci abita dentro, sugli esseri umani, mentre i nostri edifici qui in Occidente trasmettono tensione».
(Alberto Salza)