di Federico Monica
Anche nelle città africane sono sempre più diffusi gli esempi di architettura ostile: elementi di arredo urbano studiati appositamente per impedire di sedersi, sdraiarsi o commerciare in determinate zone della città. Le vittime, in Africa come in Italia, sono quasi sempre persone già in difficoltà, nel tentativo di nascondere la povertà anziché di affrontarla a livello strutturale
Un tappeto sterminato di grandi pietre appuntite, sistemate in piedi l’una di fianco all’altra, occupa interamente gli spazi al bordo della strada sotto un cavalcavia non lontano dall’aeroporto di Accra. L’effetto è curioso, a metà fra un museo archeologico a cielo aperto e un’installazione di arte contemporanea.
«Li hanno messi lì, così nessuno può più sedersi o sdraiarsi a dormire», mi spiega Moses, loquace tassista che adora l’Italia e il suo calcio. «Hanno fatto bene: è brutto che gli stranieri o i turisti vedano queste cose», aggiunge convinto.
Si tratta di un classico esempio della cosiddetta “architettura ostile”: elementi architettonici o di arredo urbano pensati per impedire l’accessibilità o alcune attività in luoghi specifici. Le città europee e anche quelle italiane ne sono piene. L’esempio più diffuso è sicuramente quello delle panchine intervallate da braccioli fissi, la cui funzione non è certo di migliorare l’ergonomia quanto di impedire, principalmente ai senzatetto, di sdraiarsi. Ci sono poi ringhiere, spuntoni o borchie in metallo installati sempre più spesso davanti alle vetrine di negozi e banche, sotto i portici o nelle pensiline degli autobus.
L’obiettivo dichiarato è mantenere il cosiddetto “decoro urbano”, concetto ambiguo che sembra guardare più all’apparenza che alla sostanza, puntando a nascondere o rimuovere situazioni di degrado anziché affrontarne le cause profonde per risolverle.
Da qualche tempo, anche in molte città africane come Accra gli esempi di architettura ostile si diffondono a macchia d’olio. Non che sia una novità assoluta: le transenne intorno ai monumenti o alle rigogliose aiuole spartitraffico nelle zone più centrali sono presenti da decenni in metropoli come Nairobi, Lagos o Kinshasa, tuttavia il progressivo aumento delle diseguaglianze sociali porta con sé anche queste soluzioni, nel tentativo di mantenere “decorose” porzioni sempre più ampie di città.
Le zone intorno agli aeroporti e le strade più battute da turisti e visitatori stranieri, così come i marciapiedi dei quartieri più esclusivi e le aree che circondano i centri commerciali, sono i punti delle città in cui barriere, dissuasori o anche semplicemente guardiani in divisa impediscono a chiunque di fermarsi, sedersi, giocare o commerciare. I marciapiedi devono restare vuoti e puliti, ricreando un’idea edulcorata e asettica di città che stride con ciò che spesso accade a pochi metri di distanza.
Nei nostri centri storici le pietre appuntite lasciano il posto a elementi impercettibili, quasi di design: oggetti che a un occhio inesperto possono sembrare innocue decorazioni, ma che spesso sono appositamente studiati e collocati per ostacolare alcune azioni, spesso colpendo, paradossalmente, proprio chi già è in seria difficoltà, come gli homeless in cerca di un riparo asciutto e sicuro.
Una vecchia storia che tende a ripetersi, in Italia come nelle grandi città africane. La povertà, anziché essere affrontata, viene nascosta, obbligata a spostarsi da un’altra parte, possibilmente lontano dai nostri occhi e da quartieri tanto “decorosi” quanto respingenti.
Qualche sera dopo, Accra è avvolta da una pioggia leggera ma persistente. Ripassando sotto lo stesso cavalcavia noto strani movimenti: un gruppetto di persone ha appoggiato delle assi di legno recuperate chissà dove sulle pietre aguzze: qualcuno è seduto a chiacchierare, qualcun altro cerca di dormire in quell’angolo asciutto e rialzato dal terreno. Il grigio delle pietre illuminate dai lampioni al neon si accende di lampi di colore dei vestiti stesi ad asciugare, tutto sembra improvvisamente più vivo, forse più bello, sicuramente più umano. Anche Moses ride divertito scuotendo la testa: «Eeh, these people!».
L’arte di arrangiarsi vince su tutto, anche sull’architettura ostile, e la capacità di trasformare e sfruttare al massimo luoghi e situazioni è uno degli elementi che rende ancora oggi le città africane così vitali, dinamiche e interessanti. Con buona pace del decoro e degli sguardi dei turisti.
Questo articolo è uscito sull’ultimo numero della Rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’eshop