Anzitutto la scrittura. Che crea un’atmosfera sommessa, un libro “sottovoce”, perfettamente in sintonia con i caratteri delle due protagoniste e degli altri personaggi (… a parte un vicino batterista che prova in casa, che neppure è un vero e proprio personaggio e fa risaltare per contrasto il clima ovattato). Quindi l’ambientazione: una cittadina marittima dello Stato del Victoria (Australia), dove s’incontrano due giovani mamme, una giapponese e l’altra africana, quest’ultima rifugiata, più qualche altra donna, tra cui un’italiana prossima alla pensione e un’insegnante di inglese. Poi l’autrice, una giapponese effettivamente residente in Australia e che con questo piccolo romanzo d’esordio ha stupito anche il suo Paese di origine, mietendo importanti premi. Infine una meditazione sulla parola, sui nomi, sulla lingua – nella fattispecie lo scoglio dell’inglese, lingua verso cui la pur autocontrollata Sayuri/”Riccio”, la coprotagonista giapponese, una donna «incline al silenzio» e che ha «stretto un patto con il demone della scrittura», ha dei moti interiori di rivolta: «Avverto sempre l’impulso di gridare al mondo il mio odio verso questo posto e la lingua inglese».
Quanto a Nakichi/Salima, è fuggita da un non precisato Paese d’Africa (potrebbe essere il Sudan) con il marito (che due anni dopo la pianterà) e due figli. Lei è più che principiante nell’idioma di Shakespeare, e allo stesso modo comincerà da zero, e con un certo disgusto, il suo lavoro in un supermercato, a tagliare la carne e il pesce da mettere nelle vaschette. Con tenacia, nell’uno e nell’altro impegno (soprattutto nel secondo!) farà dei progressi, anche se scoprirà di essere poi essenzialmente sola, a parte la laconica amicizia con la giapponese – cui la unisce anche l’«arancione» del titolo che lasciamo al lettore di scoprire. Ma grazie ad alcuni incontri e circostanze comincerà a crescere anche nella socialità.
Un romanzo, dunque, molto al femminile (ma non mancano figure maschili positive) sulla condizione degli immigrati. Dove non si insiste tanto sulle condizioni socio-economiche, che per le coprotagoniste sono basse ma non disperate, e neanche sulle discriminazioni, ma su quelle socio-psicologiche: sulla comunicazione, a partire dalla nuova lingua, appunto, cui si somma la cesura con il proprio passato – Salima ha solo qualche ricordo personale, non riesce a presentare il proprio Paese a una classe di bambini durante un laboratorio di interculturalità, e neppure al proprio figlio. È una combinazione che sfocia in una parola: solitudine. Solitudine nella «prigione invisibile del Paese straniero in cui sono rinchiusa come ribelle», come dice Sayuri, che in certo modo esprime i sentimenti anche dell’amica, che non avrebbe le parole per farlo. Le due donne sono ancora abbastanza giovani, però, e può ancora profilarsi qualche sorpresa che per lo meno attenui la loro condizione. Quale, la lasciamo scoprire alla lettrice, al lettore.
e/o, 2018, pp. 158, € 14,50
(Pier Maria Mazzola)