L’Africa domina da decenni le competizioni di atletica mondiale, esprimendo giovani campioni che fanno incetta di medaglie e nuovi primati. Ma dietro questo formidabile movimento, fatto di talento e abnegazione, si celano storie di corruzione e giochi sporchi.
Gli ultimi campionati mondiali di atletica, tenutisi a Londra in agosto, hanno confermato lo straordinario talento dei fondisti africani. Ben ventotto medaglie, di cui undici conquistate dal solo Kenya. Altre otto vinte da africani naturalizzati per altri Paesi. Ma cosa succede dietro le quinte di questi successi? Quali interessi inquinano un mondo che nella sua essenza si nutre delle speranze di giovani cresciuti nelle campagne e formatisi su piste di terra battuta? Il mondo africano della corsa, che spesso ci regala dei prodigiosi riscatti dalla povertà, e talvolta delle vere e proprie leggende sportive, cela un lato oscuro che sta emergendo con crescente preoccupazione. Ed è ora di aprire gli occhi.
Scandali sugli altipiani
Lo scorso anno il Kenya ha scongiurato all’ultimo momento l’esclusione dai Giochi Olimpici perché sprovvisto di un’adeguata normativa antidoping. Jemima Sumgong ha potuto così realizzare un’impresa storica diventando la prima donna kenyota a vincere la maratona olimpica. Peccato che, pochi mesi dopo, sia emersa la sua positività all’Epo, ormone che aumenta la produzione di globuli rossi. «Il doping è diventato una piaga. Medici e farmacisti locali senza scrupoli fanno il lavaggio del cervello agli atleti», ha commentato di fronte alle insinuazioni il suo allenatore Gabriele Rosa. Il medico bresciano, sponsorizzato da Nike, è un personaggio di primissimo piano in Kenya, avendo seguito la carriera di oltre duemila atleti negli ultimi trent’anni. A seguito dell’arroventarsi del clima, con accuse incrociate fra atleti, allenatori e media, Rosa è arrivato a minacciare di lasciare il Paese.
Non è semplice capire cosa stia succedendo. Fino a pochi anni fa la Wada (Agenzia mondiale antidoping) non effettuava controlli durante la preparazione in Kenya ed Etiopia. I test avvenivano solo dopo le principali gare all’estero. Dal 2011 a oggi sono emersi una cinquantina di casi di positività. Ma c’è chi grida al complotto, in quanto gli atleti trovati positivi, quasi tutti di seconda fascia e fuori dal giro delle nazionali, potrebbero essere solo vittime sacrificali per tacitare le coscienze.
Discorso a parte è poi quello dell’iperandrogenismo delle migliori ottocentiste che pone numerosi interrogativi sul piano etico. Al momento la specialità è dominata dalla sudafricana Caster Semenya, a cui la giustizia sportiva ha prima imposto e poi revocato una cura di riduzione dei livelli anomali di testosterone. Medesimi sospetti avvolgono altre due mascoline avversarie: la burundese Francine Niyonsaba e la kenyota Margaret Wambui. Sono nate con rarissime sindromi intersessuali o hanno subito cure ormonali?
Kalenjin da esportazione
Nove dei dieci maratoneti più forti della storia provengono dal Kenya. Otto di questi appartengono al popolo kalenjin, che abita la parte occidentale della Rift Valley fino all’Uganda. Cinque milioni di persone da cui provengono migliaia di campioni. Emergere in questo mare di talento richiede una perseveranza fuori dal comune: la federazione keniana non fornisce alcun supporto logistico per gli allenamenti né tantomeno sanitario nel caso dei frequenti infortuni che fanno parte della gavetta. Non è difficile capire perché tanti aspiranti atleti (47 nel solo quadriennio 2012-16) accettino le offerte di Paesi finanziariamente floridi a caccia di talenti da naturalizzare.
Uno dei primi a fare il salto fu Stephen Cherono, una giovane promessa dei 3000 siepi. Nel 2003 divenne cittadino del Qatar per mille dollari al mese a vita. Con il nuovo nome di Saif Saaeed Shaheen vinse due ori ai campionati mondiali, siglando anche il miglior tempo mai corso sulla distanza. Alle ultime Olimpiadi il fenomeno è emerso in tutta la sua ampiezza: su 30 atleti della nazionale del Bahrein, 26 sono nati in Africa. E non sono solo i petroemirati a schierare talenti senza alcun legame con la nazione: anche la Turchia ha acquisito diversi atleti, peraltro con passaporti che verranno probabilmente revocati a fine carriera. La situazione ha spinto la Federazione internazionale di atletica (Iaaf) a correre ai ripari. Si parla di inasprire le norme per competere dopo un cambio di cittadinanza, ma gli atleti protestano. Rispetto all’obiettivo di uscire dalla miseria, la maglia del Kenya equivale a quella dell’Azerbaijan.
Non più solo atleti
Nonostante tutti i problemi, i corridori incarnano l’ideale di successo e l’orgoglio del Paese. In Etiopia, Haile Gebrselassie fa da testimonial per le più svariate pubblicità. I capitali guadagnati vengono reinvestiti in attività imprenditoriali, anche nel settore del running (come ha fatto Lornah Kiplagat, con l’omonimo brand di abbigliamento sportivo che strizza l’occhio alla classe media urbana) o nella carriera politica (il vincitore della maratona di Boston, Wesley Korir, ha conquistato nel 2013 un seggio da senatore, continuando peraltro ad allenarsi come un professionista).
Il diffondersi delle conoscenze specialistiche, prima patrimonio degli europei, crea fenomeni inediti: aumentano di quantità e qualità i coach locali e, seppure ancora in sordina, si sente parlare dei primi procuratori africani. Si parla infine di organizzare i mondiali del 2025 in una città del continente dopo il successo dei mondiali giovanili andati in scena a Nairobi in luglio. Insomma, nonostante l’innegabile fiatone, l’atletica in Africa corre decisa verso il futuro. Riuscirà a superare anche le sue ombre?
(di Martino Ghielmi)