di Annamaria Gallone
Oggi vi parliamo del regista congolese Baloji Tshiani e del suo ultimo film presentato al Festival del Cinema di Cannes. Un film tra realismo magico e documentarismo, in cui l’inquietante bellezza visiva dell’universo del regista è servita da una direzione artistica tanto singolare quanto spettacolare, intrecciando in tre capitoli le storie di quattro persone tormentate,
“Questo film è la continuità di tutto ciò che ho già fatto. Una continuità e un punto di arrivo”: A dirlo è Baloji, artista poliedrico, che è passato dietro la macchina da presa per girare un film originale e allucinante, Omen (titolo internazionale AUGURE), presentato al Festival di Cannes 2023 nella sezione Un certain Regard.
Il suo vero nome è Baloji Tshiani ed è nato a Lubumbashi, nella Repubblica Democratica del Congo. Si è trasferito giovanissimo in Belgio. Di questo “sradicamento”, il rapper ha parlato nel suo primo album, “Hotel Impala” del 2008. A questo sono seguiti altri due album: “Kinshasa Succursale” nel 2011 e “137 Avenue Kaniama” nel 2018.
Ambientato a Lubumbashi, il film porta lo spettatore a osservare, da un punto di vista privilegiato, un universo noto a pochi. Primo film di finzione congolese a partecipare a Cannes è una coproduzione di Belgio,Paesi Bassi, Repubblica del Congo, Francia, Germania e Sudafrica.
Un film tra realismo magico e documentarismo, in cui l‘inquietante bellezza visiva dell’universo del regista è servita da una direzione artistica tanto singolare quanto spettacolare, intrecciando in tre capitoli le storie di quattro persone tormentate, rifiutate dall’Africa di oggi, dove perdurano tuttavia tradizioni, credenze, pregiudizi , risentimenti e superstizioni antiche. Ogni capitolo è dedicato a un personaggio, le cui vicende si intrecciano con quelle degli altri.
Koffi, congolese, è sposato con una ragazza bianca, Alice, che è in attesa di due gemelli. All’ uomo sembra una buona idea tornare in Congo dopo 18 anni di esilio, per presentare la moglie, pagare la dote e ricreare un legame che si era spezzato. Alice è felice, curiosa e disponibile ad affrontare anche i disagi, ma l’arrivo la Domenica delle Palme, riserva una grande delusione. Koffi viene accolto con estrema freddezza e capisce che nulla è cambiato: pesa sempre su di lui il marchio del diavolo. È un’impronta che lo condanna e che condivide, dall’altra parte della città, con Paco, un giovane shégué tormentato dalla morte della sorellina e coinvolto in una guerra tra bande che gli impedisce di elaborare il lutto. Sono i bambini stregoni, i figli maledetti che devono essere esorcizzati, ragazzini, che indossano tutù fucsia e bianchi e sono in lotta con un gruppo rivale.
Anche Tshala e Mujila, la sorella e la madre di Koffi, sono streghe, accusate anch’esse di essere possedute, mentre in realtà sono perseguitate dai fantasmi del loro passato. Koffi vaga nelle miniere a cielo aperto dove lavora il padre, sempre più disperato Tshala decide la sua partenza verso il sud del continente. Qui, si rivela una nuova realtà, un luogo ardente che è diventato proibito. Mujila è un personaggio che all’inizio non sembra particolarmente significativo, ma acquista via via più importanza.
Questa lotta comune dei quattro personaggi per liberarsi dalle imposizioni e dalle identità loro assegnate risulta icastica nelle sequenze fantasmagoriche che punteggiano la narrazione fortemente simboliche e che immergono lo spettatore in una realtà cruda e poetica al tempo stesso, in cui non manca la satira politica
Ottime e convincenti le prove di tutti gli interpreti, già noti sul grande schermo: da Marc Zinga a Lucie Debay, da Eliane Umuhire a Yves-Marina Gnahoua.
Omen non è strettamente autobiografico, ma in parte ispirato alla vita del regista, il quale confessa che l’avventura del film è stata punteggiata da molte difficoltà. “Il cinema è una passione, un desiderio che non mi ha mai abbandonato”, spiega. “Ho scritto diverse sceneggiature che non hanno mai visto la luce. Ho anche prodotto io stesso diversi cortometraggi perché nessuno ci credeva”, dice, confessando di essere “un fotografo frustrato”. Ci è voluto molto tempo per trovare un modo e per convincere le persone intorno a me che c’era qualcosa, una lingua, da sviluppare, ma alla fine è stato possibile”. “La mia prima passione è la scrittura – spiega – raramente oso parlarne perché può sembrare un po’ pesante, ma il mio lavoro è la poesia”.”Volevo parlare del senso di estraneità che possiamo provare quando torniamo nel Paese dei nostri genitori. E, naturalmente, volevo farlo nel contesto dell’Africa sub sahariana”.
E poi confessa: “La mia infanzia a Liegi, in seno alla comunità siciliana, ha fatto di me un amante assoluto di Antonioni, Fellini e Pasolini”.