Il Presidente del Sudan, Omar al Bashir, ha sfidato nuovamente la Corte penale internazionale (Cpi). Ieri è arrivato a Pechino (Cina), dove si è recato nonostante il mandato di cattura internazionale per genocidio e crimini di guerra in Darfur, spiccato nei suoi confronti proprio dalla Cpi. Nella capitale cinese il presidente del Sudan parteciperà alle celebrazioni per la sconfitta del Giappone nella Seconda guerra mondiale, ma di sicuro discuterà anche di affari. Khartoum è il principale partner commerciale di Pechino al quale vende soprattutto petrolio. La posta in gioco è quindi particolarmente importante per il leader africano. Talmente importante da sfidare il rischio di essere arrestato. Rischio che non corre in Cina, Paese che non riconosce la Cpi, pur essendo un membro permanente del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite (organo che ha rinviato la causa del Darfur alla Corte). Ma che potrebbe correre in un eventuale scalo in Paesi che invece riconoscono il tribunale internazionale.
Già a giugno, Bashir aveva rischiato di essere arrestato in Sudafrica dove si era recato per il vertice dei Paesi africani. La Corte penale internazionale aveva chiesto di eseguire il mandato internazionale di arresto per genocidio. Ma il leader di Khartoum era riuscito a ripartire prima che il tribunale di Pretoria si pronunciasse. Questo anche grazie alla complicità degli altri leader africani.
La classe politica africana vede in modo critico la Corte penale internazionale. Politici e commentatori hanno puntato il dito contro la presunta «discrezionalità» del tribunale dell’Aja che finora, a loro parere, si sarebbe accanito soprattutto contro leader africani. La polemica è montata fino al punto che, in occasione del rinvio a giudizio del presidente keniano Uhuru Kenyatta, numerosi Paesi africani hanno minacciato un ritiro in massa dal trattato di Roma che sancisce la creazione dell’assise penale internazionale.