Arrivano giovanissime e piene di speranza dalle campagne, ma quando giungono a Cotonou trovano solo sfruttamento, violenze e abusi. Sono le vittime innocenti di un fenomeno inquietante. A centinaia vengono salvate da missionarie italiane.
«Quando ho lasciato il villaggio con mia nonna per venire a vivere in città, sognavo una vita migliore – racconta Sophie, 15 anni –. Mi era stato detto che avrei potuto finalmente indossare dei bei vestiti e andare a scuola. Invece mi sono ritrovata tra queste bancarelle, costretta a lavorare come venditrice ambulante dalla mattina alla sera. La mia vita è diventata un inferno. Odio questo posto con tutto il mio cuore».
Il mercato di Dantokpa è il cuore pulsante di Cotonou: una bolgia umana, luogo per eccellenza di ogni scambio commerciale, calamita per decine di migliaia di persone che abitano nella capitale economica del Benin. Qui finiscono anche i vidomegòn. «Si tratta di bambini e bambine provenienti dalle campagne e trasformati in baby-schiavi», spiega Maria Antonietta Marchese, 75 anni, infaticabile missionaria salesiana di origini torinesi. «Il termine in lingua fon significa “affidati”, poiché i piccoli vengono consegnati dai genitori nelle mani di parenti e conoscenti che vivono in città, nella convinzione di fare la cosa giusta per loro».
Emergenza sociale
Da diciassette anni suor Maria Antonietta si dedica con dieci consorelle a lottare contro lo sfruttamento dei minori, soprattutto bambine. «Il proliferare dei vidomegòn è alimentato dal mito della metropoli – argomenta la religiosa –. Tanti contadini suppongono, sbagliando, che qui i loro figli possano contare su maggiori opportunità e sicurezza. Ma nella maggior parte dei casi questi finiscono per essere sfruttati e, nel peggiore dei casi, abusati e maltrattai dai loro “tutori”». La missionaria mostra delle fotografie che le salesiane di Cotonou hanno scattato ad alcune bimbe rifugiatesi nelle loro strutture: immagini scioccanti, che rivelano ustioni in vaste parti del corpo, occhi gonfi, tumefazioni, sguardi perso nel vuoto. «In conseguenza delle violenze, alcune ragazzine hanno subìto gravidanze indesiderate, altre sono state contagiate dal virus dell’Hiv».
Iniziato nei primi anni Novanta, il fenomeno dei vidomegòn ha acquisito le dimensioni di una vera e propria piaga sociale. Le organizzazioni umanitarie stimano ad almeno mezzo milione le piccole vittime dello sfruttamento. Alcune rimangono in Benin, altre sono mandate in Gabon, Nigeria, Togo e Costa d’Avorio. Sono costrette a lavorare nelle cave di pietra o nelle piantagioni di cotone. Le bambine sono trasformate con la forza in domestiche, commercianti ambulanti o prostitute.
Un prezioso rifugio
In loro soccorso sono attive da anni le salesiane di Cotonou. «Il nostro lavoro incomincia dal mercato», spiega suor Tiziana Borsani, che ci accompagna tra i vicoli del Grand Marché du Dantokpa. Camminiamo per un fitto reticolo di sentieri e bancarelle che esplodono di pesci, carni, verdure, tessuti, pezzi di ricambio per auto, donne, uomini, sacchi di mais, urla, animali e tante, troppe, bambine piegate dal peso degli enormi cesti che portano sul capo.
Nel 2001 le salesiane hanno aperto un rifugio per le piccole vidomegòn proprio in mezzo al mercato. «Le ragazzine approfittano di questo spazio per riposarsi nel corso della lunga giornata di lavoro. Vengono qua, si stendono un attimo, mangiano qualcosa e, soprattutto, parlano», spiega un animatore. Nella baracca sono presenti psicologi ed educatori che collaborano con le suore. «Alcune bimbe vengono reinserite nelle famiglie di origine, se queste sono valutate idonee – racconta Tiziana –. Ma spesso è difficile risalire alla famiglia, perché le piccole vengono portate via dai villaggi senza documenti e non si capisce più da dove arrivino. Molte non possiedono nemmeno il certificato di nascita. Così le ragazze vengono ospitate nelle nostre strutture».
Ferite indelebili
Il Foyer Laura Vicuña, nel quartiere di Zogbo, accoglie le ragazzine abusate. «Appena arrivano, vengono visitate da medici e accolte da operatori sociali che le inseriscono nel centro come in una famiglia – spiega la salesiana –. Per tutto il tempo di residenza vengono seguite da psicologi le che aiutano a superare il trauma… Offrendo un aiuto concreto per evitare che le bambine finiscano nuovamente nel circolo vizioso dello sfruttamento e della prostituzione», dice suor Tiziana.
Sono innumerevoli le storie di terrore scoperte e portate alla luce dalle missionarie di Don Bosco. «Sono stata violentata nel 2015 da un uomo in un vicolo buio del mercato», sussurra Justine, ex venditrice ambulante, voce flebile e sguardo basso. Ha sedici anni e un bambino di pochi mesi. «Quando ho scoperto di essere rimasta incinta, non l’ho detto a nessuno: mi vergognavo». Julie, 11 anni, è stata stuprata mentre andava a fare spesa di verdura. Charlotte, 13 anni, è stata abusata ripetutamente da un militare, proprietario della casa dove viveva in affitto con i tutori.
Casa della speranza
Il riscatto per queste giovani comincia alla Maison de l’Espérance, un’altra struttura gestita dalle religiose: qui troviamo decine di ragazze che, munite di grembiuli colorati e mascherine, si danno un gran da fare tra laboratori di cucina, panetteria, pasticceria, arti domestiche e cosmesi. È una vera e propria scuola di formazione professionale, finalizzata all’invenzione di un futuro di speranza.
Per aiutare le ragazze madri a frequentare i corsi, le suore hanno organizzato una sorta di servizio di babysitteraggio per i loro figli. «In questi spazi i bambini partecipano ad attività ludiche che li allontanano per qualche ora dal caos che si genera in mezzo alle baracche», dice Tiziana che, in pochi secondi, viene accerchiata da un folto gruppo di bambini intenti a giocare con barattoli di latta all’interno della baraccopoli. «Facciamo il possibile affinché questi bimbi abbiano un’infanzia migliore di quella delle loro madri. È dura, ma ce la stiamo mettendo tutta».
(Valentina G. Milani – foto di Bruno Zanzottera)