Benin: la danza dei morti viventi

di AFRICA

Vengono chiamati revenants, “fantasmi” in francese. Sono temutissimi zombi che si materializzano con maschere inquietanti e abiti sontuosi, dando vita a danze acrobatiche e talvolta “mortali” (per gli spettatori).

«Ci vieni a vedere gli zombi?», chiese il ragazzino. «Lascia stare, non vedi che fotografo l’altare di Fantômas?», risposi inquadrando le statue in legno. «Ma sei matto? Questo è un altare pericoloso, non lo sai? Non scattare: Fantômas è potente!». Nascosi la macchina fotografica all’istante. «Vada per gli zombi», sussurrai.

Questo dialogo surreale, che pare preso da un film di serie B da intitolarsi “Fantômas contro gli Zombi”, si è svolto nel dicembre 1972 ad Abomey, in quello che era il Dahomey, oggi Benin. Abomey è, con Ouidah, la capitale del vodù, una delle religioni più antiche del mondo. L’area è infestata dai feticci: pochi giorni prima mi era stato offerto di partecipare a un corso da stregone (féticheur), onore e onere che avevo rifiutato con tutta la diplomazia possibile; si sa, i vodun – gli spiriti – sono suscettibili quanto gli dei greci che perseguitarono Ulisse.

L’origine del mito

Come alternativa, mi andavano bene anche gli zombi. In verità, la parola “zombi” è legata al vodù haitiano. Il concetto, però, è derivato dalle credenze dei primi schiavi importati nelle Americhe, perlopiù yoruba (Nigeria) e fon-goun (Dahomey). Dalle parti di Abomey, i morti-non morti si chiamano in yoruba egungun, le “persone-ossa”, e indicano gli antenati – sempre presenti tra noi – che ritornano a farsi vedere dai vivi in speciali occasioni: da qui il termine francese di revenants (i Fon della costa li chiamano kouvito).

Il mito di origine narra di Ghezo, re del Dahomey tra il 1818 e il 1858, che prese degli schiavi yoruba a Oyo, in Nigeria; uno di essi mise in giro la voce di essere in possesso di poteri sovrannaturali: con semplici incantesimi era in grado di fare miracoli. Dato che non gli credeva nessuno, lo schiavo passò alle vie di fatto. Prese un bastone e colpì la terra: le persone-ossa ne uscirono a frotte, ridotte a scheletri. Il re Ghezo ne fu terrorizzato e decise di cambiare lo status di tutti gli schiavi yoruba, mandandoli per precauzione a Ouidah, la sede del pantheon fon-goun.

Al convento dei fantasmi

Da lì, il culto degli egungun si diffuse nel territorio, dove si apprestarono appositi conventi per ospitarli mentre erano tra i vivi. I conventi ci sono ancora. In occasioni speciali, quali grandi funerali, nascite e matrimoni degli iniziati, o periodi di crisi o di particolare gioia, le loro porte si aprono e ne escono i revenants (“fantasmi” in francese), lì rinchiusi per tutto l’anno. Non è cosa facile: gli adepti devono placare gli spiriti con molte offerte ed evocare i defunti, per poi, la notte della vigilia, partire alla caccia di Igbé Agan, uno strano spirito che è l’unico a poter sguinzagliare i revenants tra i vivi.

Dalle parti di Abomey si ritiene che i vivi camminino, letteralmente e simbolicamente, sulle ossa dei morti, i quali li sostengono tramite la connessione infinita delle esperienze in vita e delle connessioni genealogiche dopo la morte. Così non mi stupii di essere invitato a vedere i morti viventi: sono dappertutto. Con qualche amico, sotto la guida del ragazzino entusiasta, andammo di mattina davanti al convento dei revenants.

La lingua dei morti

Ovviamente ci eravamo persi l’uscita dell’alba (da tenere a mente: niente african time per le cerimonie). L’atmosfera era gaia, come si confà a una festa di paese: una marea di biciclette, una folla variopinta, commercianti di carabattole, venditori di noccioline e Coca-Cola, spacciatori di micidiale alcool di palma, cose così. Eravamo gli unici bianchi, e fummo incoraggiati da pacche e sorrisi. Tra le teste si intravedeva un baldacchino a protezione di personaggi autorevoli e un insieme di tamburi. Il ritmo era continuo, ma delicato come un bordone di Bach. Davanti, vedemmo i revenants: personaggi mascherati e abbigliati in modo complesso, con broccati, frange, veli colorati (preponderante il rosso) e quant’altro a coprirne la figura. La risultante silhouette era piuttosto inquietante. Parlavano e salmodiavano nasalmente in una lingua sconosciuta, che mi dissero essere un dialetto rituale yoruba incomprensibile agli abitanti di Abomey.

Strisce e stracci

In seguito venni a sapere che il costume deriva da una leggenda yoruba (itan), all’origine dell’intenso rapporto con i cadaveri degli antenati e le loro ossa. Nelle parole del santone Afolabi: «Un uomo, per risparmiare, decise di non dare appropriate onoranze funebri al padre. Si limitò ad abbandonarlo alla base di un albero sacro iroko. Da quel momento gli andò tutto storto, per cui consultò un divinatore. Questi gli consigliò di recuperare i resti del padre e di compiere gli appositi rituali funebri. L’uomo ritrovò le ossa da cui pendevano gli abiti di color rosso ormai stracciati. Ne fece una sorta di fagotto, utilizzando rami di iroko avvolti in strisce ricavate dai brandelli di vestito. E in seguito tutto gli andò bene. Ecco perché noi yoruba rappresentiamo e onoriamo i nostri morti con altari fatti di stracci rossi e bastoni di iroko».

Per quanto riguarda strisce e stracci, i nostri revenants non erano secondi a nessuno, ma i bastoni sarebbero arrivati in un secondo tempo, eccome.

Bastoni pericolosi

A un certo punto, all’improvviso, il ritmo dei tamburi cambiò, divenendo parossistico e incalzante. E i morti viventi partirono alla carica. «Fuggite, fuggite», si mise a urlare la gente attorno a noi. «Se uno dei loro costumi vi sfiora, morirete, per poi risvegliarvi come revenants pure voi!». Tempo prima avevo personalmente subito le cariche della polizia a cavallo olandese, ma in quella situazione ebbi assai più paura. E scappai assieme alla folla in preda al panico.

Voltandomi, potei scorgere i revenants che danzavano in pazzesche acrobazie, con il pericoloso costume roteante verso chi si attardava, mentre i loro guardiani (malio) ne controllavano gli spostamenti con un lungo bastone, con cui menavano senza pietà i “sacchetti di ossa” viventi. Pochi istanti, e poi il ritmo dei tamburi si fece nuovamente sordo e rilassato. La carica di danza s’interruppe, e i revenants vennero ricondotti davanti al convento come docili armenti, con gli stracci flosci e il capo chino. Tutti noi, folla compresa, sembravamo bambini appena usciti dal Tunnel dell’Orrore: eccitati, sollevati, ridanciani in modo isterico. Ci rimettemmo a sgranocchiare noccioline e bere distillato di palma. E poi tutto ricominciò. Il gioco è questo, pause di serenità e accelerazioni di terrore. Dopo la terza carica ci sentimmo a nostro agio, una volta capite le regole e registrato mentalmente il ritmo d’assalto.

«Scappa o ti ammazzano»

A un certo punto rimasi isolato dai miei compagni. Sorridevo alla faccia della superstizione. Poi gli spettatori si aprirono e mi portarono davanti la guida con il cuoio capelluto aperto da una bastonata. «Scappate o va a finire che vi ammazzano», disse un tizio in francese. «Lui è già stato punito», aggiunse indicando il ragazzino coperto di sangue. «Per cosa?!», gridai. «Per aver portato qui il tuo amico», e mi indicò un assembramento attorno a Simon, un ragazzo inglese che ci accompagnava fin dal deserto libico. Riuscii a tirarlo fuori dal cerchio minaccioso dei guardiani. E tagliammo la corda.

Le cose erano andate così: Simon, preda del demone dell’incoscienza, era andato dritto dai revenants per toccarli: voleva vedere se sarebbe caduto stecchito per davvero. I casi erano due: a) se fosse morto, gli iniziati e il convento avrebbero avuto guai seri dalle autorità; b) se non fosse morto, tutto l’inghippo cerimoniale dei morti viventi sarebbe crollato, rivelandosi mera superstizione. In entrambi i casi era male. Il giorno dopo ci fecero sapere che, effettivamente, due persone erano state sfiorate dagli abiti dei revenants. «E allora?», chiesi ansioso. «E allora sono morte», fu l’ovvia risposta. «Magari vedremo ballare le loro ossa l’anno prossimo», concluse l’informatore con una certa soddisfazione.

(testo di Alberto Salza – foto di Bruno Zanzottera / Parallelozero)

Condividi

Altre letture correlate: