di Marco Aime
Le sembianze della reggia dell’antica capitale del regno del Dahomey non fanno trasparire granché del ruolo che ha avuto per secoli. Ma dietro al suo aspetto sereno e a simboli e colori quasi infantili vibra ancora la tragedia della schiavitù
L’anziano capo Dan si era spazientito per le continue usurpazioni di terreni per mano del suo rivale Aho. Un giorno gli disse: «Tra poco arriverai a costruire fin sulla mia pancia». Parole profetiche. Non molto tempo dopo, Dan fu ucciso e sotterrato nelle fondamenta della casa di Aho. Il nuovo regno fu chiamato “Dan ho me” (Nel ventre di Dan), un regno passato alla storia con il nome di Dahomey.
La città di Abomey, che significa “la cinta”, era la capitale di quel regno, il cui territorio è oggi compreso nella parte meridionale del Benin, di cui rimangono molte testimonianze sparse per la città, ma su tutte domina il palazzo reale. Agli occhi di un europeo l’edificio, vittima di restauri non sempre azzeccati, non rende il giusto omaggio ai fasti raggiunti nel XVII secolo dal Dahomey. Un regno che, per il suo livello di organizzazione, stupì i primi occidentali entrati in contatto con esso, anche se la sua prosperità era legata a una triste vicenda: il commercio degli schiavi. Alcune stampe appese ai muri d’ingresso raffigurano colonne di uomini incatenati alle mani, ai piedi e al collo, frustati dai negrieri locali, ordalie e giudizi sommari da cui dipendeva la vita degli schiavi. Una ferita ancora aperta, quella della schiavitù.
La recinzione sorge su un grande spiazzo di terra rossa, la stessa con cui sono stati costruiti i suoi muri. Oltre il grande cortile sorge il palazzo con i suoi muri bianchi, su cui spiccano i variopinti bassorilievi raffiguranti i simboli dei sovrani succedutisi. L’interno della sala dei troni è tutto un susseguirsi di segni e simboli che raccontano le epopee dei sovrani. Le guide recitano ai visitatori i diversi motti che ogni sovrano sceglieva per caratterizzare la propria politica e il proprio ruolo. «Nonostante la sua lentezza il camaleonte finisce per raggiungere la cima della ceiba»: così Aqaba, salito al trono nel 1685, commentò lo strano destino che lo volle sovrano in età molto avanzata.
Grandi drappi che dominano gli scranni di legno intarsiato narrano la storia di Agadja detto Huito, «colui che prende la via del mare». Il suo simbolo è una nave attorniata da truculente scene di battaglia. Fu infatti Agadja a espugnare il forte di Ouidah lanciando all’attacco le sue terribili armate femminili di amazzoni, destinate a rimanere nubili, donne che dicevano di sé: «Siamo uomini».
Quando nel 1732 salì al trono Tegbesu, i suoi rivali riempirono la tunica regale di ortiche per costringerlo a spogliarsi, gesto che avrebbe significato la rinuncia al trono. Tegbesu resistette e il suo motto divenne: «Il bufalo vestito è difficile da svestire», e il suo simbolo è un bufalo che indossa una tunica. Lo scranno di Agonglo (1789-97) è sormontato dalla raffigurazione vivace di un grande ananas accanto a una palma. Dalle parole del suo motto affiora una profonda saggezza: «La folgore cade sulla palma, ma l’ananas la evita».
I disegni quasi naïf del palazzo di Abomey raccontano storie di guerre e di schiavi, di genti strappate ai propri villaggi dagli stessi dahomeyani per essere rivendute ai mercanti europei, che stipavano i carichi umani nelle navi negriere.
Ma gli schiavi erano moneta corrente anche per gli scambi interni. Imposte, debiti, acquisti, tutto si poteva pagare con denaro umano. Gli schiavi erano merce di valore e come tale venivano trattati. Inglesi, portoghesi e olandesi restavano nei loro forti lungo la costa e lasciavano ai sovrani locali il compito di procurare loro la “merce”. La storia del Golfo di Guinea, che nel XVIII secolo era chiamato Costa degli Schiavi, è segnata dalle razzie delle popolazioni del sud ai danni di quelle del nord. Una tragedia che tra nord e sud ha segnato una spaccatura che vive ancor oggi nelle tradizioni orali. Una tragedia che finisce per diventare un’attrazione turistica. Il palazzo di Abomey, come i forti di Ouidah in Benin, di Elmina in Ghana o di Gorée in Senegal attirano gruppi di occidentali armati di macchina fotografica, ma anche molti afroamericani che ripercorrono a ritroso, secoli dopo, il cammino degli antenati.
Quei disegni colorati dai tratti semplici, quasi infantili, che caratterizzano Abomey non sembrano voler ricordare un momento così truce della storia dell’umanità. Ma il pensiero di quei muri, di quelle navi cariche all’inverosimile di uomini, donne e bambini, provoca un certo brivido e soprattutto una grande tristezza.