di Annamaria Gallone – foto di Lorenzo Maccotta
Prosegue il nostro viaggio nella cinematografia africana. In questa tappa ci fermiamo a Kumasi, seconda città del Ghana, dove si realizzano – in un sol giorno e con budget ridottissimi – serie televisive di grande successo. A recitare: familiari dei registi e attori non professionisti. Che improvvisano a soggetto.
Sorella minore della più nota Nollywood, l’industria cinematografica del Ghana è oggi prolifica e fiorente. La sua nascita risale al 1948, quando la Gold Coast Film Unit fu istituita dalle autorità britanniche (il Ghana sarebbe diventato indipendente, prima tra le nazioni africane, il 6 marzo 1957). Nel 1970, I Told You So fu il primo film ghanese a ricevere riconoscimenti internazionali e ottime recensioni dal New York Times. Nei decenni successivi, pochi film di successo di una cinematografia che stentava a crescere e che all’inizio degli anni Ottanta era entrata in una grave crisi tecnica e finanziaria.
Serie strappalacrime
Oggi tutto è cambiato. La produzione è stata progressivamente sostituita da una vasta realizzazione di lungometraggi in video a uso e consumo quasi esclusivo del pubblico locale: il 1996, anno in cui la Gfic (Ghana Film Industry Corporation) è stata venduta a privati, passando a una produzione solo televisiva, ha segnato la fine di un’epoca. A influenzare il cambiamento è stata la cinematografia nigeriana: nel 2009 l’Unesco definisce Nollywood come la seconda più grande industria cinematografica al mondo dopo Bollywood, e sulla sua scia nasce tutta la produzione attuale del Ghana.
Quella dei video risulta essere ormai una vera e propria industria, interamente finanziata da capitali privati e gestita da registi e tecnici provenienti dalla Gfic, basata sul principio della serialità. Il suo riferimento principe è la struttura del melodramma, cui vengono aggiunte minime variazioni narrative. Le storie sono molto simili: tradimenti, lacrime, rivalità in amore o amori impossibili, carriere folgoranti, amuleti miracolosi, madri eroiche e figli degeneri.
A ruota libera
Il centro produttivo più noto è “Kumawood” – da Kumasi, città dove si sfornano moltissime serie televisive – e che si è sviluppato soprattutto per la storica rivalità con la capitale Accra, unico luogo dove un tempo si faceva cinema. Si gira quasi sempre in una sola giornata, con scenografie che sono quelle della strada, della città o dei villaggi dei dintorni. A differenza di Nollywood mancano quasi del tutto le ville dei ricconi, auto di lusso, donne truccatissime con abiti sfarzosi; i protagonisti sono per lo più gente del popolo e gli attori non sono professionisti, spesso parenti della famiglia allargata del regista, oppure attori nati con il teatro di strada. Ora molti di loro sono diventati vere e proprie star, riconosciute e acclamate dal pubblico.
Sul set regna di solito la più grande confusione, tra grida, risate, strombazzare delle auto e moto di passaggio, ma i ciack non si ripetono, bisogna produrre in gran fretta, ogni pausa è una perdita di denaro. Si recita per lo più nella lingua locale, come afferma l’attrice Portia Boateng, «perché è più facile entrare nella storia». Non esiste sceneggiatura, agli attori viene comunicata la tematica e recitano a ruota libera. Si raccontano storie in cui la gente si riconosce e i film si possono vedere dovunque, non solo al televisore di casa ma per strada, in autobus, con un dvd o sul web. Tutto ciò dà vita a un mercato fiorente, spesso gestito dalla Nigeria. In tempi recenti si è sviluppata una collaborazione fra troupe dei due Paesi, con scambio di attori e registi, anche se si tratta di due industrie indipendenti. Pochissimi di questi film arrivano nelle sale, ma oggi Kumawood copre il 40% del cinema che si vede in Ghana, il 50% viene prodotto ad Accra e il 10% da altri Paesi africani.
Registi migranti
Ci sono però autori che si staccano dalle produzioni seriali, come Akosua Adoma Owusu, nominata da IndieWire come «una delle preminenti registe femminili d’avanguardia che hanno ridefinito il cinema». Nata negli Usa nel 1984 da genitori originari del Ghana, dalla Virginia si è trasferita a Washington, dove lavora come installatrice di esposizioni artistiche e regista di film indipendenti. I film di Owusu sono stati proiettati in prestigiosi festival cinematografici di tutto il mondo, musei, gallerie e università. Nei suoi film l’immigrato africano negli Stati Uniti ha una “triplice coscienza”. Owusu interpreta la nozione di doppia coscienza di W.E.B. Du Bois, uno dei padri del panafricanismo («Uno sente sempre la sua duplicità – un americano, un negro; due anime, due pensieri, due lotte non riconciliate; due ideali in guerra in un solo corpo scuro, la cui forza ostinata da sola non lo fa andare in pezzi. Egli vuole semplicemente rendere possibile ad un uomo di essere sia un negro che un americano, senza essere maledetto e sputato dai suoi compagni, senza avere le porte dell’Opportunità chiuse bruscamente in faccia») e crea un terzo spazio cinematografico o coscienza, rappresentando diverse identità, tra cui il femminismo, la queerness e gli immigrati africani che interagiscono nella cultura africana, bianca americana e nera americana. Tra i suoi ultimi cortometraggi: White Afro (2019); King of Sanwi (2020); Save the Rex (2021).
Un altro nome da citare è quello di York-Fabian Raabe, nato in Germania, ma che nel suo Borga (2021) racconta con straordinaria efficacia un’esperienza comune a molti ghanesi. Borga è un termine che designa il ghanese che ha raggiunto il benessere all’estero. Il film racconta la storia di due fratelli, Kojo e Kofi, che crescono nei pressi di una discarica di rifiuti elettronici ad Accra, dove lavorano con il padre. Un giorno Kojo incontra un borga che vive in Germania e che cambierà la sua vita per sempre. Quando, dieci anni più tardi, gli si presenterà l’opportunità di andare a sua volta in Germania, Kojo lascia la famiglia e inizia un’odissea di cinque anni attraverso i continenti. Arrivato in Germania, però, il suo sogno si infrange. Nessuno lo riceve a braccia aperte. Tuttavia il ritorno in Ghana è fuori questione! Kojo cerca di realizzare ciò che tutti si aspettano da lui: che diventi un borga.
Amartei Amar, sceneggiatore e regista, di padre ghanese e madre americana, ha studiato cinema in Canada e attualmente vive ad Accra. Ha diretto diversi cortometraggi, tra cui Tsutsué, una produzione franco-ghanese, selezionato nella competizione ufficiale al Festival di Cannes nel 2022. In una cittadina del Ghana, vicino a una grande discarica lambita dalle acque dell’oceano, vivono Sowah e Okai, figli di un pescatore. I due ragazzini non si danno pace per la perdita del loro fratello maggiore, annegato durante una battuta di pesca. Ossessionato dalla sua scomparsa, Okai crede che il fratello sia ancora là fuori…
Amartei Amar sta ora lavorando al suo primo lungometraggio, Vagabonds, scritto a partire dal cortometraggio omonimo realizzato nel 2018.
Un legame con l’Italia
Fred Kudjo Kuwornu ha una storia diversa. Primo regista italiano afrodiscendente, nato a Bologna, padre del Ghana, è anche produttore cinematografico e attivista. Vive tra diverse culture: ha la cittadinanza statunitense, il passaporto italiano, e vuole tornare là dove sono le sue radici, ad Accra. La sua società di produzione, con sede a Brooklyn, si chiama “Do The Right Films” in omaggio al regista Spike Lee. I suoi documentari, che affrontano i temi della diversità, del razzismo, della società multietnica italiana, sono riconosciuti a livello internazionale. Da anni vive negli Stati Uniti, ma progetta di passare più tempo in Ghana.
È stato set assistant nel film Miracolo a Sant’Anna che Spike Lee ha girato in Italia, nel 2008, sulla strage nazista di Sant’Anna di Stazzema. Da quell’esperienza ha tratto ispirazione per girare nel 2010 Inside Buffalo, documentario sui soldati afroamericani che hanno contribuito alla liberazione del nostro Paese. Con questo film ha vinto il premio come miglior documentario al Festival di Berlino, ottenendo pubblico riconoscimento dai presidenti Clinton, Obama e Napolitano. Un afrodiscendente con una marcia in più. Tra le sue opere più interessanti: 18 Ius Soli (2011) e Blaxploitalian (2016). La sua opera è esposta per la prima volta alla Biennale di Venezia 2024.
Artista eclettico
Originale e di estremo interesse è la filmografia di John Akomfrah. Lo incontrai giovanissimo a Rimini, vincitore del festival con Testament, il suo primo lungometraggio, e ho intuito subito il suo approccio intellettuale-passionale a tematiche politiche e sociali come l’ingiustizia razziale, la black diaspora, la migrazione e la memoria. È un artista che opera su più fronti: dalla scrittura alla regia, oltre all’insegnamento.
Nato ad Accra nel 1957 da genitori coinvolti nell’attivismo anticoloniale, ha raccontato in un’intervista al Guardian che suo padre era membro del gabinetto del partito di Kwame Nkrumah. «Abbiamo lasciato il Ghana perché la vita di mia madre era in pericolo dopo il colpo di Stato del 1966, e mio padre è morto anche a causa della lotta che portò al putsch». Emigrato in Gran Bretagna a 4 anni, ha studiato a Londra e nel 1982 si è laureato in Sociologia all’Università di Portsmouth. Ha cofondato il Black Audio Film Collective (1982-1998), che raggruppava sette artisti e registi neri britannici e della diaspora per sostenere lo sviluppo di un cinema africano nel Regno Unito. Fra i suoi lavori vanno citati, oltre a Testament (1988), Handsworth songs (1986), A Touch of the Tar Brush (1991) e Last Angel of History (1996), che raccontano alcuni momenti della storia africana e della diaspora con l’occhio multimediale del filmmaker sperimentale e dell’artista video Fra le opere più note in questo campo, The Nine Muses (2011), The Unfinished Conversation (2012), Peripeteia (2012), Vertigo Sea (2015), Purple (2017), Four Nocturnes (2019), e l’ultima, Arcadia (2023).
Questo articolo è uscito sul numero 4/2024 della rivista Africa. Clicca qui per acquistare una copia.