Le manifestazioni seguite alla morte di Georges Floyd, riunite sotto l’hashtag #BlackLivesMatter, hanno coinvolto milioni di persone in tutto il mondo. Anche in Africa ci sono state mobilitazioni e presidi. Tutto questo ha avuto un effetto collaterale interessante: ha prodotto infatti una riflessione allargata sul razzismo che attraversa paesi africani e su realtà non rappresentabili attraverso la griglia concettuale del cosidetto “privilegio bianco”.
Maryam Abu Khaled, attrice palestinese dalla pelle nera, ha pubblicato su Instagram un video in cui denuncia come in Medio Oriente i neri non vengano uccisi dalla polizia ma patiscano comunque una drammatica e costante discriminazione razziale. In pochissimo tempo ha avuto quasi un milione e mezzo di visualizzazioni.
Il razzismo contro i neri nell’Africa del Nord e in Medio Oriente è un problema annoso e parzialmente rimosso, che si intreccia con varie forme di vessazione e violenza. Sappiamo cosa accade in Libia. Noto è il caso della Mauritania, dove la schiavitù è stata formalmente abolita ma continua a essere praticata e ai danni dei neri. Mentre in altri Paesi, Libano e Arabia Saudita per esempio, i maltrattamenti inflitti ai lavoratori domestici, molto spesso neri, rappresentano la norma.
Sono questioni su cui i governi preferiscono glissare. Come dimostra il caso di Bladi Bladek, lo spot di denuncia realizzato dalla fotografa marocchina Leila Aloui (rimasta uccisa nell’attentato di Ouagadougou, nel 2016) che, all’epoca, le televisioni di stato del suo paese si erano rifiutate di trasmettere. Censurarla dopo la sua morte era più difficile e quindi il lavoro di Leila ha ripreso a circolare, anche se sempre su canali non istituzionali. Qui potete vederlo.
Ma c’è un razzismo di cui si parla ancora meno, ed è quello che vede neri opposti ai neri. Le proteste per Floyd hanno contribuito a mettere un po’ in luce anche questo. Abbiamo pubblicato una settimana fa il video in cui Najma Fiyasko Finnbogadòttir, attivista somala e fondatrice della piattaforma social Md-Show, denuncia il trattamento vergognoso riservato ai somali bantu nel suo Paese, discriminati per le loro caratteristiche fisiche: «Paradossale che ci si dimentichi di una questione come questa proprio mentre si scende in piazza per Floyd».
E qualche giorno fa è stata Aminata Kida, imprenditrice e attivista di origine maliana che vive a Roma da quando era bambina e ha la cittadinanza italiana, a pubblicare su FB un post che ha suscitato un acceso dibattito: «Secondo me è giunto il momento che anche in Africa si scenda in piazza contro il razzismo dei neri contro i neri! Basta guerre etniche! Basta impedimento di matrimoni solo perché uno viene da un etnia diversa!».
«Quando si tratta di denunciare il razzismo dei bianchi contro i neri ci si unisce, arrivando a includere nel segmento “nero” persone che nere non sono e che non si riconoscono come tali. Poi però si glissa sulle forme di esclusione e discriminazione che ci sono in Africa», ci ha detto. «Penso all’intolleranza crescente verso gli immigrati in Sudafrica ma anche a questioni più antiche, in un certo senso precoloniali. La schiavitù in Mauritania, certo. Ma anche lo scontro tra Dogon e Paul nel nord del Mali ha una componente etnica molto forte. In Mali c’è un sistema di caste che vieta i matrimoni tra determinati gruppi. Un divieto che neanche i soldi riescono a scardinare. Una persona di casta inferiore, per esempio un griot, anche se ricchissima, non può sposare un nobile o aspirare a un incarico politico. Non c’è una legge scritta a impedirlo. È un veto sociale, che proprio per questa sua natura, basata sulla tradizione, è ancora più difficile da mettere in discussione. Certo, se pensiamo agli scontri tribali o a quello che è accaduto tra Hutu e Tutsi in Rwanda, il divieto di matrimonio può apparire una piccola cosa. In realtà è la punta di un iceberg».
«È più facile combattere il razzismo dei bianchi contro i neri perché rappresenta qualcosa di esterno», prosegue Kida. «Rivolgere questo spirito critico all’interno richiede un grande sforzo. In molti casi vuol dire entrare in conflitto con le famiglie e gli anziani. Però se vogliamo essere coerenti e andare oltre gli slogan, è arrivato il momento di rompere il silenzio. Dobbiamo smettere di dire che è tutta colpa dell’Occidente, non per una questione di gentilezza, bensì per essere più efficaci nella risoluzione dei problemi. E il problema che abbiamo oggi in Africa non è Floyd ma lo scontro tribale».
(Stefania Ragusa)
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