All’estrema periferia di Freetown, fra il verde delle palme e le mangrovie, spuntano sterminate file di lapidi in cemento corrose dalla pioggia. A partire dall’epidemia di Ebola è in questo luogo sperduto che vengono sepolte le vittime delle grandi tragedie che hanno colpito e che continuano a colpire la capitale della Sierra Leone.
di Federico Monica
Il nome ha un suono innocuo, quasi dolce: Bolima. E anche il luogo è incantevole, con i prati verdissimi bordati da palme e mangrovie, le montagne azzurre sullo sfondo e le anse sinuose del fiume poco lontano. Eppure è qui, in questo angolo di paradiso apparente, che si concentrano le tragedie che hanno colpito la Sierra Leone negli ultimi anni.
Non è facile trovare la stretta via polverosa che si inoltra fra le case del sobborgo affollato di Waterloo, in mezzo ai banchi del mercato, ai minivan e alla massa di persone che si accalca ai bordi della superstrada che porta a Freetown. E non è facile nemmeno ottenere indicazioni: perché andare lì? E a fare cosa?
Fino a pochi anni fa l’area di Bolima e la vicina zona di Paloko non erano altro che tranquille zone rurali ai limiti estremi della capitale. Campi, risaie, palme capitozzate per spillare la linfa necessaria a realizzare il vino locale e nuove case in blocchi di cemento che spuntano in maniera disordinata e restano incomplete per anni in attesa dei soldi per completarle.
Poi arrivò la tragedia di Ebola: negli ospedali e nei centri attrezzati di Freetown i morti erano decine, centinaia ogni giorno, e i cimiteri della città troppo piccoli, troppo accessibili e troppo vicini alla città per scongiurare il pericolo di ulteriori focolai. Fu allora che qualcuno si accorse di questa strada senza uscita che si perde per un paio di chilometri fra il verde e muore in una palude, lontano dal frastuono della città. In pochi giorni quell’angolo di campagna dimenticato da tutti diventa l’epicentro del dramma che sta colpendo l’intero paese: camion guidati da uomini invisibili avvolti nei loro scafandri si allineano giorno e notte in attesa delle complesse operazioni di sepoltura, i residenti vengono allontanati o fuggono altrove, lontano da quel luogo di disperazione che qualcuno indica come maledetto.
Alla fine dell’epidemia, una volta spento l’eco delle feste e delle celebrazioni, tutti sembrano essersi dimenticati di Bolima e delle sue lapidi in cemento corrose lentamente dalla pioggia e dal muschio, ma dopo soltanto due anni dall’ultima sepoltura Freetown è scossa come un terremoto da una nuova immane tragedia: il versante di una collina si sgretola durante una notte di pioggia trascinando con sé ogni cosa e uccidendo oltre 1100 persone.
Centinaia di corpi vengono allineati lungo le strade per un riconoscimento impossibile o ammassati nelle minuscole camere mortuarie dei pochi ospedali della città. Non c’è tempo per organizzare riconoscimenti, funerali, cerimonie. Ancora una volta le lugubri file di camion tornano ad affollare la strada di Bolima mentre gli escavatori smuovono cumuli di terra rossa per fare spazio alle fosse comuni.
Il resto è storia recente: Freetown è una città meravigliosa e difficile, in cui le grandi tragedie sembrano accadere con impressionante regolarità, lasciando segni dolorosi difficili da cancellare. L’ultimo poche settimane fa, quando un incidente stradale coinvolge un’autocisterna piena di combustibile che esplode fra il traffico, uccidendo oltre 150 persone. Ancora una volta sarà il grande prato di Bolima il luogo destinato ad accogliere le vittime di questa ennesima disgrazia, con una cerimonia collettiva celebrata dal presidente in persona.
La storia si ripete, tragicamente. Prima dell’arrivo degli inglesi e dei primi schiavi liberati si narra che la zona di Freetown fosse chiamata Romarong, che in lingua Temne significa il luogo delle lacrime, perché qui si piangevano i morti annegati trascinati sulle spiagge dalla corrente impetuosa del fiume.
Le sterminate file di tombe di Bolima raggiungono ormai le rive di quello stesso fiume, memoria del passato e del presente di un paese dolce, che fatica a trovare pace.
(Federico Monica)