Nel corso dei secoli i sommovimenti della crosta terrestre hanno costretto un grande corso d’acqua dell’Africa australe a perdersi nelle sabbie del Kalahari. Ne è nato un luogo incantato, unico al mondo…
La nostra imbarcazione scivola placida tra papiri, canne e ninfee. Lo sciabordio dell’acqua mette in movimento pesci, uccelli fluviali e un paio di ippopotami che sonnecchiano a poca distanza. Il Delta dell’Okavango, microcosmo d’acqua incastonato nel nord del Botswana, è una delle grandi meraviglie naturali del mondo. Una regione inequivocabilmente riconoscibile anche dallo spazio, a causa della sua unicità e maestosità. In Africa australe, dagli altopiani dell’Angola un fiume scende placido verso sud per centinaia di chilometri; poi, invece di piegare a ovest verso l’Oceano Atlantico, sceglie un percorso diverso, devia verso sud-est e si perde nelle sabbie del Kalahari in un enorme delta: questo fiume è l’Okavango.
Percorso obbligato
La storia di questo fiume è antica quanto quella del Kalahari e risale a più di cento milioni di anni fa, quando, in seguito alla frattura del supercontinente primordiale Gondwana, il frammento che in seguito sarebbe diventato il continente africano iniziò un processo di parziale sollevamento che generò tre immense depressioni: quella del Ciad nella parte settentrionale del continente, quella del Congo nel centro e quella del Kalahari a sud. Durante il periodo Cretaceo, circa cinque milioni di anni fa, la glaciazione determinò un inaridimento del clima assorbendo buona parte dell’umidità presente nell’atmosfera e il Kalahari divenne una desolata regione arida nella quale, due milioni di anni più tardi, fortissimi venti provenienti da sud crearono un sistema di enormi dune parallele che correvano da est ad ovest.
Quando le piogge tornarono a cadere sulla terra, l’acqua venne canalizzata tra le dune creando una miriade di fiumi che correvano da est ad ovest, alcuni sfociando nell’Oceano Atlantico e altri in quello Indiano, fino a due milioni di anni or sono, quando i movimenti della crosta terrestre formarono una faglia che sbarrò loro la strada verso l’oceano. I fiumi diretti a est iniziarono allora a riversare le loro acque nel bacino del Kalahari e precisamente nella sua area più depressa, ovvero il bacino del Magkadigkadi, formando un enorme lago che prese le sembianze di un vero e proprio mare interno.
Tra le sabbie
Uno dei maggiori fiumi che alimentavano il Magkadigkadi era l’Okavango. Ma se questi corsi d’acqua rappresentarono per quasi due milioni di anni la vita del super-lago, allo stesso modo ne determinarono la morte. Oltre all’apporto di acqua, infatti, questi fiumi portarono anche enormi quantità di sedimenti che causarono un innalzamento del fondale fino a portare il lago, ventimila anni fa, al suo definitivo inaridimento. I fiumi cercarono allora nuove vie verso oriente, ma l’Okavango non ne trovò e continuò a riversare le sue acque nelle sabbie del Kalahari, dove forma tuttora una delle più vaste aree umide del pianeta.
Oggi l’Okavango, che nasce dagli altopiani del Benguela in Angola, scende per quattrocentocinquanta chilometri verso sud-est con il nome di Cubango o Ciwutu, fino al confine settentrionale della Namibia, dove inizia a scorrere verso oriente per altri quattrocento chilometri, prendendo il nome di Kavango. Al suo ingresso nella Striscia di Caprivi, il fiume piega nuovamente verso sud-est ed entra in Botswana prendendo il nome di Okavango. Qui imbocca un canale naturale lungo un centinaio di chilometri, detto Panhandle, cioè “manico della padella”, perché dall’alto sembra il manico dell’enorme padella costituita dal delta. Nel Panhandle, le acque sono profonde e scorrono veloci, le rive sono gremite di papiri, canne ed altre piante erbacee acquatiche, mentre una moltitudine di pesci e uccelli fluviali affolla il fiume. All’uscita dal canale, l’Okavango si perde tra le sabbie del Kalahari, aprendosi in un delta che durante i periodi di piena può ricoprire una superficie di circa quindicimila chilometri quadrati, formando un reticolo di canali poco profondi in cui la corrente è pressoché nulla e l’acqua pertanto è straordinariamente limpida e pura.
Isole piene di vita
La zona più interna del Delta è costituita da un ambiente di acque perenni ma, spostandosi verso l’esterno, si incontrano una miriade di isole e isolotti, la cui estensione va da pochi metri quadrati a decine di chilometri. Su di esse la vegetazione cresce rigogliosa: alte palme Mokolwane (Hyphaene petersiana), alberi delle salsicce (Kigelia africana) dagli splendidi fiori purpurei, alberi della pioggia (Lonchoocarpus capassa) e centinaia di altre specie. Isole galleggianti di ninfee, muraglie di papiro (Cyperus papyrus), ampie distese erbose e boschi lussureggianti creano un habitat ideale per una quantità incredibile di animali.
Più di cinquecento specie di uccelli popolano il Delta insieme a quasi tutte le più note specie di animali africani, dai grandi mammiferi ai temuti rettili. Nelle acque basse e placide gli ippopotami lanciano i loro grugniti, condividendo lo spazio con enormi coccodrilli; dietro a mandrie di zebre e branchi di impala, si muovono i leoni, i licaoni, i ghepardi, le iene e il leopardo. Lo scorbutico tasso del miele vaga frenetico alla ricerca di cibo mentre tra i branchi di elefanti e le mandrie di bufali che solcano le paludi erbose si scorgono anche i lichi, una specie endemica di antilope palustre alla quale la particolare conformazione delle “dita” consente di correre agevolmente nell’acqua, sulla quale i lichi in fuga sembrano letteralmente volare.
La porta d’ingresso
Il territorio del Delta è mutevole e le piene stagionali ne trasformano in continuazione la geografia; quando le piogge di novembre iniziano a cadere sull’Angola, l’Okavango riversa nel Delta una tale quantità d’acqua che le paludi raggiungono quasi le porte della cittadina di Maun. Maun, con il suo piccolo aeroporto internazionale, rappresenta la porta d’ingresso per il turismo nel Delta e già alla fine del Settecento nell’area sorgeva un piccolo insediamento dell’etnia Yei; ma il vero boom della città si verificò dopo il 1990, in seguito alla costruzione della strada asfaltata Nata-Maun, e oggi Maun si estende per circa quindici chilometri lungo il fiume Thamalakane.
Da qui si può partire per esplorare in volo il Delta o raggiungere su strada la riserva di Moremi, un centinaio di chilometri più a nord. La riserva di Moremi è una tra le più vaste e famose aree di conservazione del Botswana: creata nel 1963 per proteggere l’incredibile patrimonio faunistico del Delta, essa porta il nome del capo tswana Moremi III, che risiedeva nell’area. Collocata nella zona nord-orientale del Delta dell’Okavango, con i suoi quasi cinquemila chilometri quadrati di superficie la riserva ne ricopre circa il 30 per cento, e presenta un ecosistema di paludi sconfinate, attraversate da canali di acqua dolce, che si alternano a isole di savana mista, distese erbose e boscaglia di mopane (Colophospermum mopane). Nella zona centrale del Moremi, nel cuore del Delta, si trova la più grande di queste “isole”, Chief Island, raggiungibile soltanto con le imbarcazioni o per via aerea.
A pelo d’acqua
Nell’ambiente paludoso caratteristico del Delta dell’Okavango, a eccezione di un limitato numero di barche a motore la navigazione è quasi esclusivo appannaggio di un’imbarcazione singolare quanto esclusiva: il mokoro. Canoa monolitica a basso pescaggio, costruita partendo da un tronco d’albero scavato fino a ricavarne un vano interno lungo quanto l’intera imbarcazione, il mokoro rappresenta il cuore della tradizione locale di pesca e commercio, e oggi la sua crescente popolarità lo ha eletto a importante risorsa per l’industria turistica locale. Il basso pescaggio consente all’imbarcazione di solcare le acque poco profonde dei piccoli canali, scivolando letteralmente sulle isole galleggianti di ninfee. La propulsione è generata mediante una pertica azionata da un barcaiolo collocato a poppa, che invece di remare spinge l’imbarcazione puntando la pertica sul fondale. Il nome inglese della pertica (pole) è all’origine del nome pola che distingue i conduttori di mokoro. All’interno della canoa, uno spesso strato di erba verde rende più comodo il viaggio dei passeggeri e mantiene le merci trasportate all’asciutto.
L’origine dell’imbarcazione è attribuita agli Yei, popolazione che si insediò lungo le acque basse del Delta alla fine del XVIII secolo. Nell’area del Panhandle, invece, dove le acque sono più profonde, le comunità Hambakushu utilizzano un remo al posto della pertica. Percorrere il Delta a bordo del mokoro è una sensazione unica e si resta quasi inebriati da tanta abbondanza d’acqua, tra muraglie di papiri che si inchinano quasi a voler sfiorare le imbarcazioni. Il silenzio della natura rigogliosa è rotto soltanto dai tuffi della pertica nell’acqua, dal richiamo degli ippopotami e dal canto delle centinaia di uccelli palustri. Navigare sul mokoro significa percorrere le vene dell’Okavango e divenirne parte, mentre, seduti praticamente al livello della superficie dell’acqua, pare quasi di nuotare nell’acqua limpida dei suoi canali.
(Gianni Bauce)