«Noi stiamo combattendo contro gli inbonerakure, gli interhamwe, la polizia e quelli dei servizi segreti del Presidente». Ma noi chi? Chi combatte? «Noi siamo insieme, Fnl, Msd, e gli altri partiti di opposizione. Anche Rajabu è con noi. Domani sarà catastrofico. Ci hanno dato l’ordine di penetrare nel centro di Bujumbura, fino alla Presidenza». Chi vi ha dato l’ordine? «I nostri dirigenti politici».
Questo è un estratto di una conversazione avuta lo scorso fine settimana con un militante di un partito politico che sta partecipando alle manifestazioni nel Paese in vista delle elezioni Presidenziali. Annunciate come iniziative pacifiche per opporsi al terzo mandato del Presidente uscente, Pierre Nkurunziza (un mandato anti-costituzionale, dato che la Costituzione del Burundi limita a due il numero massimo), stanno, invece, assumendo risvolti sempre più violenti. La maggior parte dei quartieri della capitale sono in subbuglio e gli scontri tra i manifestanti e la polizia hanno già provocato diversi morti e decine di feriti.
Ciò che più colpisce di queste proteste è il carattere «militante» e «generazionale». La maggior parte dei manifestanti è giovane, alcuni sono appena adolescenti (non è trascurabile la partecipazione di giovani donne). Gli stessi inbonerakure, una milizia creata una milizia creata dal Cndd-Fdd, il partito al potere e semina il terrore tra la popolazione, si compone di giovani reclutati soprattutto nelle regioni interne del Paese, armati e addestrati militarmente in Congo. Si tratta, quindi, di militanti di formazioni politiche, e di uno scontro tra due diversi sistemi di valori e attitudini politiche (più che di uno scontro etnico): da un lato la difesa di principi democratici, dall’altro la chiusura su pratiche autoritarie. Le proteste sono nate proprio in quei quartieri roccaforte di alcuni partiti politici che si oppongono con forza a un probabile terzo mandato, come il Msd di Alexis Sinduhije e il Fnl di Agathon Rwasa, e si sono poi diffuse in altre zone della capitale, nonché in alcune aree all’interno del paese (a Gitega ad esempio, dove numerosi studenti sono stati arrestati; e a Matana, nel sud).
Questi partiti sono gli stessi che nel 2010 boicottarono le elezioni nazionali, dopo aver denunciato casi di frode a cui la comunità internazionale fece orecchie da mercante. In quel momento la strategia dell’opposizione, volta a creare un fronte comune extra-parlamentare, fu giudicata perdente da molti osservatori, perché lasciava ampio margine di manovra al Cndd-Fdd, solo alle redini del potere e sempre più autoritario. Tuttavia, i partiti d’opposizione hanno continuato a raccogliere simpatie fuori e dentro il Paese, incanalando malcontenti e insoddisfazioni di larghe frange popolari. Il fatto di non far parte di un Governo giudicato corrotto e criminale ha permesso a questi partiti di prendere le distanze dalla corruzione e dal malgoverno che caratterizzano il regime di Nkurunziza, affermandosi sempre di più come una alternativa agli occhi della popolazione burundese e, soprattutto, dei giovani dei centri urbani, i più coinvolti nelle proteste. Ma giovanissimi sono anche la maggior parte dei poliziotti e dei soldati dell’esercito che vediamo scendere in campo.
Contrariamente alla presunta neutralità politica delle forze dell’ordine, gli schieramenti pro e contro il terzo mandato sono evidenti, ed è proprio questa divisione che rende la situazione attuale particolarmente delicata. La polizia sembra essere pienamente sotto il controllo del Presidente, mentre l’esercito appare diviso in due o più schieramenti. L’uno che si affretta ad annunciare la fedeltà alle autorità, l’altro che non esita a fare da scudo tra la polizia e i manifestanti, tra i plausi di quest’ultimi. Sembrerebbe, infatti, che laddove i soldati scendano in campo, la polizia non osi sparare sulla folla, mostrando un atteggiamento più morbido.
Appare chiaro, oramai, che il Presidente Nkurunziza mollerà difficilmente la presa «sul trono», nonostante gli appelli e le intimidazioni di molti Paesi, tra cui gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il Ruanda, che si sono apertamente schierati contro il terzo mandato. Resta da valutare la capacità di resistenza dei manifestanti e le risorse dei partiti d’opposizione. Se l’esercito non scende in campo, la forza delle proteste potrebbe esaurirsi in poco tempo, lasciando spazio ai «soliti» scontri pre-elettorali a cui il Paese è oramai (e purtroppo) abituato. Se, invece, parte dell’esercito decide d’intervenire a sostegno dell’opposizione, non è da escludere un colpo di Stato militare, o una escalation di violenza che avrebbe conseguenze drammatiche.
Valeria Alfieri
phd in Scienze Politiche, Università La Sorbona