Burundi – Referendum, il plebiscito di Nkurunziza

di Enrico Casale
referendum in burundi

di Giovanni Gugg

Il referendum costituzionale che si è tenuto ieri, 17 maggio 2018, in Burundi non ha avuto sorprese: secondo i dati – ancora ufficiosi – diffusi dal network filogovernativo Ikiriho, il Sì (Ego, in lingua kirundi) ha vinto con il 73,18%, mentre il No (Oya) si è fermato al 19,6%. L’affluenza è stata ovunque superiore al 90%, anche perché chi avesse voluto astenersi avrebbe rischiato gravi conseguenze: da questo punto di vista la campagna referendaria è stata ampiamente disequilibrata (la commissione elettorale ha ammesso 25 comitati pro-riforme e solo uno contro), gestita dal governo (che ha chiuso le radio private, comprese Bbc e VoA) e condotta con toni spesso minacciosi. In altre parole, Pierre Nkurunziza ha raggiunto il suo obiettivo: ricevere un plebiscito in un referendum puramente formale, interamente organizzato e finanziato dal solo Burundi e senza la presenza di alcun osservatore internazionale a garantire un minimo di controllo. Nella giornata di giovedì, tuttavia, non sono state registrate violenze, sebbene non siano mancate intimidazioni, allontanamenti dai seggi e arresti arbitrari.

Per quanto il risultato elettorale confermi le previsioni, il dato di Bujumbura, capitale del Paese, è alquanto interessante da analizzare: «Sì» e «No» sono molto più equilibrati (53,9 % contro 44,4%) e in taluni seggi il «No» ha addirittura prevalso con percentuali doppie rispetto al «Sì», segno che buona parte della popolazione non si è fatta spaventare, soprattutto laddove nel 2015 si tennero grandi manifestazioni di protesta contro la terza candidatura (incostituzionale) dell’attuale Presidente.

Come abbiamo scritto alcuni giorni fa, ora il Capo dello Stato ha la strada spianata per restare in carica almeno fino al 2034, uno scenario che inquieta non solo per le sorti dei burundesi e della loro giovane democrazia, ma anche per la stabilità dell’intera regione. Questa è stata a lungo insanguinata dalla guerra civile del Rwanda (1990-1993) e dal genocidio dei tutsi del 1994, dal conflitto in Burundi (1993-2005) e dalla cosiddetta «guerra mondiale africana» in Rd Congo (1998-2003), dove attualmente stanno riprendendo tensioni e violenze nelle province orientali del Kivu, proprio sul confine burundese e rwandese. Si tratta della la zona più preoccupante della East African Community, un insieme di Stati legati tra loro, ma altamente turbolenti, che sta attraversando un periodo di destabilizzazione, tra divergenze politiche e stagnazione economica.

Nel corso dei suoi 13 anni di presidenza, Nkurunziza ha creato uno stato di polizia in cui il terrore è frequentemente diffuso dalla milizia dei giovani del suo partito, gli Imbonerakure. Per tale ragione, nel novembre 2017 la Corte Penale Internazionale ha avviato un’indagine sul suo regime, accusato di frequenti violazioni dei diritti umani. Dopo il risultato referendario di ieri, l’ipotesi che le opposizioni o le rivolte di strada che si erano viste nel 2015 possano portare a dimissioni o a un cambio di regime è pressoché irrealizzabile.

Tuttavia il Burundi è uno dei Paesi più poveri al mondo e il malcontento avanza, per cui la situazione può precipitare rapidamente, soprattutto se l’esercito dovesse cambiare atteggiamento, ad esempio nel caso dovessero terminare i finanziamenti che riceve dall’Onu per le sue missioni internazionali, come nella Repubblica Centrafricana e in Somalia.

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