di Giovanni Gugg
Il 17 maggio i burundesi sono chiamati a esprimersi con un referendum sulla riforma costituzionale voluta dal presidente Pierre Nkurunziza, un processo avviato il 12 dicembre 2017 e che, stando alle dichiarazioni di Federica Mogherini, Alto Rappresentante dell’Unione Europea, è stato influenzato da «un clima persistente di intimidazione e di repressione» , nonché dall’assenza di informazioni e dallo stretto controllo dei mass-media.
I punti essenziali della riforma riguardano l’eliminazione del limite dei due mandati presidenziali, il prolungamento dell’incarico da 5 a 7 anni e lo scioglimento di alcune disposizioni che miravano alla conciliazione tra hutu e tutsi (attualmente, ad esempio, devono esserci due vicepresidenti, uno per ciascuna etnia). Ciò significa che l’attuale Capo dello Stato – già leader dei ribelli hutu durante la guerra civile (1993-2005) e ininterrottamente presidente fin dalle prime elezioni libere del 2005 – potrà ricandidarsi ancora nel 2020, per cui sicuramente resterà al potere almeno fino al 2034, ovvero a vita. L’assolutismo di Nkurunziza, che ritiene di «essere stato scelto da Dio», era noto da tempo, ma è divenuto palese ai primi di marzo, quando si è fatto nominare «guida suprema eterna» del suo partito, il Cndd-Fdd.
Il referendum ha, dunque, il solo scopo di ratificare lo status quo attraverso un esercizio democratico completamente snaturato, senza che vi siano stati confronti e discussioni, e che, anzi, rischia di far esplodere le tensioni accumulatesi negli ultimi tre anni. Nel 2015, infatti, numerosi movimenti di protesta espressero la loro contrarietà alla nuova candidatura di Nkurunziza, già allora incostituzionale: da quel momento il Paese è sprofondato in una crisi grave e multiforme con migliaia di morti e dispersi, oltre 430.000 rifugiati all’estero (su 10 milioni di abitanti), violazioni dei diritti umani (arresti arbitrari, torture e sparizioni), scardinamento della stampa indipendente, nonché penuria alimentare e stagnazione economica (l’80% della popolazione vive sotto la soglia di povertà). Formalmente, il Burundi non è in guerra, eppure – dice l’analista Charlie Ensor – «ha tutte le caratteristiche umanitarie di un Paese che lo è».
L’opposizione in esilio ha chiesto un boicottaggio, definendo il referendum come la «campana a morte» degli Accordi di Pace di Arusha, che posero fine alla guerra civile in cui morirono oltre 300.000 persone, ma la campagna referendaria si è svolta in condizioni così controllate e sbilanciate che i militanti del «no» (e dell’astensione) rischiano fino a tre anni di carcere. Oltre dall’Ue, preoccupazione è stata espressa dall’Onu, dall’Unione Africana, dagli Usa, da Belgio, Francia, Svizzera e dalla Chiesa Cattolica burundese, specie dopo la sospensione per sei mesi delle radio Bbbc (britannica) e VoA (statunitense); la diffusione di comizi carichi di odio; la crescente frequenza di esplosioni di violenza, il cui caso più recente e sconcertante si è avuto l’11 maggio in un villaggio nel nord-ovest, dove sono state massacrate 26 persone (11 tra bambine e bambini, 10 donne, 5 uomini) e gravemente ferite altre sette, colpite con machete e armi da fuoco, per poi essere date alle fiamme.
Cosa accadrà dopo il referendum è ignoto, ma numerosi osservatori indicano la società del Burundi come ormai rassegnata, arresa a un potere dai tratti paranoici, sola dinnanzi ad uno spettro che ritorna e che non lascia granché spazio all’ottimismo.