Cacciatori di topi

di AFRICA

Nelle remote campagne della provincia mozambicana di Tete è iniziata la stagione della caccia ai topi. La carne saporita dei roditori, molto apprezzata dai viaggiatori in transito, dà una mano all’economia locale.

Il camionista zulu che mi aveva dato un passaggio verso il confine del Mozambico inchiodò in mezzo alla confusione commerciale che si autogenera in Africa nei pressi delle burocrazie; quindi si sporse dal finestrino scassato e, con mani grosse come la mia testa, afferrò due coppie di stecchi da un ragazzino. Tra gli stecchi erano infilzati sei topi arrostiti alla bell’e meglio. «Mangia», disse. Non si discute con uno zulu razzista di due metri. «Grazie», risposi spiluccando la carne pallida dopo aver scartato il pelo bruciacchiato, sperando non se ne accorgesse. «Manca la coda. Tanto è insipida come una donna bianca», sghignazzò in modo cavernoso. Mi trovai a canticchiare una parafrasi della canzoncina nella scena finale di Full Metal Jacket: «Topolin, Topolin, viva Topolin: piace ai grandi e ai bambin!».

Un affare

Appropriatamente, i topi d’Africa hanno a che fare con la guerra: contro la fame e contro le mine. Punto uno, la mancanza di cibo: la carne è carne e – là dove le proteine sono difficili da ottenere (la selvaggina della caccia tradizionale è scomparsa o proibita) – al supermercato che non c’è un topo vale un coniglio. In Mozambico, attorno al villaggio di Madamba, regione di Tete, da tempo la caccia al topo è un affare, oltre che un’indispensabile integrazione alimentare. La stagione adatta è tra aprile e settembre, quando i “cacciatori” avanzano tra gli sterpi, facendo rumore. «Così i topi si infrattano», spiega un ragazzino. Talvolta i battitori danno fuoco all’erba secca; spesso avvengono incendi incontrollati che bruciano case e uccidono persone, ma cosa volete? Così facendo i ratti – che hanno abitudini notturne e patiscono il caldo – si addensano là dove le zappe li vanno a scovare: anche un centinaio di prede per tana, al colmo della stagione.

Spiedini succulenti

A quel punto le donne si danno da fare: tagliano la coda, eviscerano le bestiole; strinano il pelo, e cuociono alla fiamma l’arrosticino di ratto (talvolta lo si fa fritto, ma l’olio di palma costa). Qualcosa si mangia in famiglia, ma la vendita tocca ai ragazzini: uno spiedino con sei topi vale 10 meticais (20 cent). La leccornia, a detta del dodicenne Jose Chirindza, è particolarmente appetita dagli abitanti di Mutarara, a duecento chilometri di strada infernale da Madamba. Cosa vuoi di più di uno spiedino di topo per ristorarti dopo un viaggio serrato in un minibus collettivo strapieno?

I peggiori clienti per i ragazzini del Mozambico vengono dal Malawi o sono i maomettani, gente cui è assurdamente proibito mangiare carne di topo. Tra gli alti e bassi del mercato, contando le code per evitare imbrogli tra produttore e venditore, il Ptl (Prodotto topo lordo) arriva ai fatidici due dollari al giorno tanto cari agli economisti della miseria.

Questione di gusti

Sul camion diedi un’occhiata ai topi infilzati, i cui denti sorridevano a modo loro. Mi dicevano qualcosa. «Questo è un Aethomiys chrysophilus, così detto per via del colore dorato del pelo. Beh da vivo», dissi. «E questo è un Tatera leucogaster, una sorta di gerbillo; pardon, era. Doveva avere un bel pancino bianco e pesare meno di un etto». Il camionista mi squadrò: «Che ne sai tu?». Feci il paternalista: «In Kenya ho lavorato con alcuni naturalisti dell’Università di Pavia che volevano studiare i topi africani, ma pativano il caldo più di loro. Così mi incaricarono di procurargliene. Fondai il Panya Group, un reparto di ragazzini acchiappatopi che divenne famoso fin nella capitale perché faceva soldi con i ratti. E i ricercatori manco li mangiavano».

Davanti all’espressione sbalordita per tanta dabbenaggine, raccontai al camionista come ogni comunità abbia tabù alimentari o consideri ripugnante un certo tipo di carne. Gli narrai come i boscimani del Kalahari mi avessero offerto bruchi fritti (in Sudafrica le larve dell’albero mopane si trovano confezionate al supermercato). Risero della mia faccia, ma rimasero sconvolti quando dissi loro che in Europa mangiavo rane e lumache. «Ma che schifo!», esclamarono. Il camionista mi squadrò. «Mai provato fame e sete?», mi chiese. «Modestamente, sì», risposi. «Allora, mangia». Mi venne alla mente un detto dei pastori peul del Camerun: «Quando il gatto è sazio dice che il sedere del topo puzza».

(testo di Alberto Salza – foto di Vlad Sokhin / Panos Pictures / Luz)

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