di Anna Radice Fossati
In Africa i safari di caccia sono un’attività florida e redditizia. Che provoca indignazioni e polemiche. Migliaia di animali selvatici, compresi esemplari di specie in via di estinzione o minacciate, vengono uccisi ogni anno da cacciatori facoltosi che pagano somme ingenti per esibire nella propria casa i loro trofei. «Attività lecita, etica e utile», sostengono le organizzazioni venatorie. «La caccia al trofeo è immorale, crudele e dannosa», ribattono gli animalisti.
«L’ho inseguito per otto giorni. Quando finalmente sono riuscito a raggiungerlo, si trovava in mezzo a un branco di 50 animali. Era il più anziano. Mi sono infilato in mezzo a loro. Sono arrivato a 15 metri e ho premuto il grilletto. L’elefante è un animale a cui bisogna sparare alla testa per non farlo soffrire, ma la situazione era caotica e un colpo del genere era impossibile. Ho sparato al cuore. Quando l’ho visto a terra, morto, ho pianto di dolore e commozione. Ci penso ancora».
A parlare è Luca Bogarelli, portavoce e membro del consiglio direttivo del Safari Club International (Sci), organizzazione che promuove attività venatorie in diverse zone del mondo. Quella che sta descrivendo è una battuta di caccia avvenuta in maniera del tutto legale. Il bracconaggio non c’entra. Pratica diffusa in molte aree geografiche e regolamentata da leggi internazionali, la caccia al trofeo causa ogni anno la morte di decine di migliaia di animali. Tanzania, Zimbabwe, Zambia, Botswana, Namibia e Sudafrica sono i Paesi africani più interessati dal fenomeno.
Una volta abbattuto, l’animale viene imballato e spedito a casa del cacciatore come trofeo, in ricordo delle proprie gesta. A giocare un ruolo fondamentale in questo settore, anche l’Unione Europea, che risulta essere il secondo importatore al mondo, dopo gli Stati Uniti, di trofei di animali. A rilevarlo, Humane Society International (Hsi), che dal 1991 lavora per proteggere gli animali, secondo cui le importazioni in Europa di questi souvenir sono aumentate del 40% tra il 2014 e il 2018. «In soli cinque anni», si legge in un recente studio condotto da Hsi, «gli Stati dell’Ue hanno importato 15.000 trofei di 73 specie di mammiferi tra quelle minacciate di estinzione… Ai primi posti tra le prede preferite: l’elefante africano (Loxodonta africana), il babbuino nero (Papio ursinus), il rinoceronte”.
Il prezzo per uccidere
Ma come funziona un safari di caccia? In tutto il mondo ci sono numerose organizzazioni e società che vendono esperienze venatorie in Africa, fornendo al cacciatore vitto, alloggio, trasporti, servizi di caccia professionale e scuoiatura. Al costo di una diaria giornaliera che va dai 200 ai 400 dollari, bisogna aggiungere il costo dell’animale che si intende uccidere, la cosiddetta trophy fee. «Un’antilope e una zebra, che sono alla portata di tutti, costano circa 800 dollari», spiega Bogarelli, «mentre un discorso diverso va fatto per gli animali a rischio estinzione, come il leone e l’elefante». Questi, infatti, sono protetti dalla Convenzione sul Commercio internazionale di specie di fauna e flora selvatiche in periodo di estinzione (Cites) che, firmata a Washington nel 1973, stabilisce quali e quanti animali protetti possano essere abbattuti in una determinata area e, in seguito, importati nel proprio Paese. «Un leone o un elefante vanno prenotati con un anno di anticipo», continua Bogarelli. «Non si può andare in Africa e sparare al primo esemplare che si trova, è tutto severamente regolamentato». In questi casi la diaria giornaliera aumenta, trattandosi di una caccia più lunga e pericolosa, arrivando fino a 1.000 dollari al giorno. La trophy fee per il leone si aggira sui 15-20.000 dollari; per l’elefante va dai 30 ai 40.000. Insomma, uccidere uno di questi animali costa in tutto tra i 50 e i 70.000 dollari.
Meglio vivi o meglio morti?
Pratica controversa, la caccia al trofeo suscita non poche polemiche a livello internazionale. Sviluppatasi durante il periodo coloniale, oggi conta decine di migliaia di facoltosi praticanti che, secondo le organizzazioni del settore, forniscono interessanti entrate alle nazioni africane. «Grazie alla caccia i governi finanziano le attività di antibracconaggio a difesa della salvaguardia faunistica», spiega sempre Bogarelli. «Non solo: l’attività venatoria nelle riserve africane produce preziosi posti di lavoro». Una battuta di caccia coinvolge infatti una trentina di persone: dai “tracciatori” (che seguono le orme per condurre il cacciatore alla sua preda) agli addetti al campo, dai cuochi agli skinners che si occupano della preparazione del trofeo.
Secondo Hsi, il presunto valore economico e occupazionale generato dalla caccia è solo un pretesto per difendere quella che in realtà è «una pratica brutale e anacronistica». «Un animale vale molto più da vivo che da morto», sostiene la direttrice di Hsi Italia, Martina Pluda, che argomenta: «Rispetto ai safari di caccia, il turismo di osservazione della fauna selvatica fornisce più introiti e garantisce lavoro a molte più persone. Se è vero che un cacciatore può pagare fino a 70.000 dollari per uccidere un elefante maschio, lo stesso animale può generare nell’arco della sua vita, con il turismo fotografico, 1,6 milioni di dollari».
Nel mirino animali inutili?
Le organizzazioni venatorie sostengono che la caccia serva anche a tutelare la biodiversità. «Può sembrare paradossale che l’uccisione di animali possa beneficiare gli animali stessi, eppure è così», concorda Gianni Bauce, guida professionista di safari in Africa ed esperto di conservazione della fauna. «Le riserve di caccia sono vasti territori selvaggi, dove i proprietari investono impegno e risorse per mantenere l’ambiente e la fauna al miglior livello possibile, perché proprio la fauna rappresenta la loro principale risorsa economica. È innegabile che l’attività venatoria regolamentata, che peraltro non ho mai praticato né intendo praticare, rappresenti in Africa non solo una risorsa economica importante ma una colonna portante per la conservazione della fauna e dell’ambiente. Inoltre, quando le popolazioni dei grandi animali diventano troppo numerose in rapporto agli spazi e alle risorse disponibili, è necessario sacrificare qualche esemplare per salvaguardare la sopravvivenza della specie e l’equilibrio della riserva».
I cacciatori fanno presente che ad essere uccisi sono gli esemplari più vecchi del branco e gli animali in soprannumero, motivo per cui i safari di caccia contribuirebbero a mantenere l’equilibrio del patrimonio faunistico. Su questo, lo stesso Bauce obietta: «Al branco è utile ogni animale, anche se non è più in età riproduttiva. L’ho capito osservando le dinamiche di un gruppo di elefanti nella riserva di Umfolozi in Sudafrica. I pachidermi avevano iniziato ad attaccare i rinoceronti. Studiando a lungo quell’insolito fenomeno sono giunto alla conclusione che i conflitti erano dovuti all’assenza di maschi anziani nell’area, che in qualche modo determinava un comportamento anormale dei maschi presenti, i cui cicli ormonali subivano forti alterazioni, con aumento dell’aggressività. Infatti, il problema si risolse quando vennero introdotti nella riserva otto maschi anziani, che da tempo avevano superato l’età riproduttiva, provenienti dal Parco Kruger: nell’arco di un mese le uccisioni di rinoceronti cessarono e gli elefanti più giovani tornarono alle loro abituali condizioni fisiologiche e comportamentali».
Boom dopo la pandemia
Le organizzazioni animaliste si battono da anni per rendere fuori legge la caccia al trofeo. «Una pratica crudele e immorale, gestita da un’industria spietata che trae profitto dall’organizzazione di viaggi di caccia sulla pelle di animali rari e magnifici», tuona Ruud Tombrock, direttore esecutivo per l’Europa di Hsi, secondo cui le organizzazioni dei cacciatori promuovono l’abbattimento di animali selvatici per “sport” incoraggiando i loro membri a competere per aggiudicare i premi in palio. Tombrock cita proprio il Safari Club International. «Non promuoviamo nessuna gara a chi uccide di più», smentisce Bogarelli, che ammette: «Abbiamo un “libro dei record”, un sistema di registrazione dettagliato nel quale i cacciatori inseriscono gli animali uccisi» allo scopo di aumentare il proprio prestigio. Poiché ogni animale vale dei punti, i cacciatori sono spinti a ucciderne sempre altri per competere tra loro, anche se Bogarelli sottolinea «che la nostra organizzazione non incoraggia la competizione, ma promuove l’etica e la responsabilità. Per esempio siamo fortemente contrari alla caccia nelle riserve piccole e recintate, dove gli animali selvatici sono rinchiusi in spazi angusti, senza via di scampo. Non c’è onore nello sparare in quelle condizioni».
La pandemia ha obbligato a sospendere per mesi le attività venatorie in Africa. Le riserve di caccia hanno subito contraccolpi pesanti, decine sono state costrette a chiudere. Ma come le disposizioni anti-covid sono state allentate, e i confini hanno riaperto, i safari di caccia hanno ripreso vigore come e più di prima. E con essi ha ripreso a crescere il mercato dei trofei.
L’asta dei trofei
Una recente indagine condotta sotto copertura da Hsi nello Stato americano dello Iowa ha svelato le dinamiche con cui centinaia di animali imbalsamati sono stati venduti al miglior offerente durante un’asta durata ben quattro giorni. Almeno 557 trofei di mammiferi sono stati messi all’incanto dai loro uccisori o proprietari, non più interessati ad averli. Tra gli oggetti c’erano decorazioni per la casa come tavoli e lampade realizzati con zampe e zoccoli di giraffa e di elefanti africani, nonché circa 50 tappeti ricavati dalle pelli di orsi neri, grizzly, zebre, lupi e leoni di montagna. L’investigatore ha riportato inoltre di aver visto mucchi di denti di ippopotamo, di ossa e zampe di giraffa e una scatola polverosa etichettata “orecchie e pelle di elefante”. Un mercato sconcertante, dal momento che lo stesso Bogarelli afferma che «è vietato vendere trofei di animali appartenenti a specie protette dal Cites».
«Il fatto stesso che specie di animali selvatici minacciate e in via di estinzione vengano uccise per divertimento è una realtà raccapricciante», denuncia Kitty Block, Ceo di Humane Society of the United States (Hsus). «È inconcepibile che vengano poi ridotti a macabri e ormai indesiderati souvenir che finiscono in un cantone, e spolverati solamente per essere venduti ad una fiera. La maggior parte dei trofei provengono da cacciatori intenzionati a dismettere una parte o la totalità delle proprie collezioni, o da famiglie che hanno ricevuto questi orrendi oggetti in eredità».
Vista l’importanza che per i cacciatori riveste il trofeo finale, Humane Society International/Europe ha lanciato una campagna in Italia, #notinmyworld, al fine di sensibilizzare l’opinione pubblica. Impallinare, imbalsamare e imballare: questa la brutale realtà della caccia al trofeo contro cui Hsi chiede agli italiani di firmare una petizione per fermare le importazioni di questi “souvenir” nel nostro Paese. «Non possiamo fermare l’uccisione di animali in altri Paesi», riflette Martina Pluda, «ma possiamo chiudere i nostri confini al commercio dei trofei».
Alcuni Paesi europei, come la Francia e l’Olanda, hanno già vietato l’importazione di trofei animali o stanno valutando la proibizione delle specie minacciate, come il Belgio. L’Italia tra il 2014 e il 2020 ha importato 437 trofei di caccia provenienti da specie protette. A livello europeo, inoltre, il nostro Paese è il primo importatore di trofei di ippopotamo e il quarto di leoni selvatici. «Siamo parte del problema», chiosa la presidente di Hsi Italia, «ma potremmo diventare parte della sua soluzione».
Questo articolo è uscito sul numero 5/2022 della rivista Africa. Per acquistare una copia, clicca qui, o visita l’e-shop.