Se diversi anni fa mi sono affezionato al calcio africano, oltre alle passioni folkloristiche e i colori sgargianti, la colpa è anche un po’ dei soprannomi delle nazionali. Tutti, o quasi, legati al mondo degli animali, ma non certo per mancanza di fantasia.
In Africa, più che in qualsiasi altra parte del mondo, il soprannome riflette le peculiarità della società in cui nasce e si diffonde, fino a scolpirsi nell’immaginario collettivo. La società africana, si sa, ha sempre mantenuto con la natura un rapporto armonioso, quasi intimo, nonostante le recenti ondate di industrializzazione e urbanizzazione selvaggia. All’antropologo britannico Colin Turnbull, un pigmeo della foresta di Ituri, Rd Congo, ha descritto così il panismo su cui si fonda questa visione del mondo tutta africana: «La foresta ci è padre e madre, e come un padre e una madre ci da ogni cosa di cui abbiamo bisogno: cibo, vestito, protezione, caldo, affetto».
Nella concezione dei popoli africani gli animali vengono percepiti come coabitanti di uno stesso ambiente, a cui spesso si attribuiscono virtù mistiche e spirituali, con cui stringere alleanze e vivere in completa armonia: «Con la sua intelligenza e la forza vitale che gli viene da Dio, l’Africano si sforza di controllare la natura e di carpirne i segreti. Con gli esseri che popolano l’universo egli stabilisce un rapporto di intima partecipazione all’interno di equilibri fragili e vulnerabili», ha scritto una volta lo studioso congolese Sebahire Mbonyinkebe.
Non deve, quindi, stupire, se la maggior parte delle nazionali africane ha guardato al mondo degli animali per pescare il soprannome giusto. Come hanno scritto Tado Oumarou e Pierre Chazaud nel loro Football, religion et politique en Afrique, gli animali hanno un impatto simbolico molto evocativo e generalmente rappresentano forza, coraggio, virilità e astuzia: «Possono svolgere anche una funzione totemica per le popolazione. Per alcuni, infatti, possono rappresentare gli antenati che ritornano in vita», ha spiegato lo scrittore senegalese Boubacar N’diaye. Soddisfano, insomma, l’esigenza fondamentale alla base della scelta di un soprannome: quella di rimandare all’esterno un’idea di forza e coraggio, astuzia e intelligenza, capace di compattare un gruppo e intimidire gli avversari, contribuendo così al complicato processo di costruzione di un’identità comune.
L’animale più gettonato, naturalmente, è il leone, un archetipo capace di esercitare un grande fascino sull’immaginario umano. Al re della foresta, gli uomini riconoscono virtù sempre molto ricercate e apprezzate come forza, nobiltà, coraggio e regalità, usandolo spesso come similitudine per rappresentare eroi e comandanti militari d’ogni risma. Una figura così, senza apparenti punti deboli, era quello di cui il Camerun aveva bisogno nel 1973 secondo Félix Tonye Mbock, l’allora Ministro dello Sport morto lo scorso gennaio. In quel momento c’era voglia di voltare pagina dopo la disastrosa eliminazione dalla Coppa d’Africa casalinga dell’anno precedente. E quale miglior modo di un soprannome per farlo? Inizialmente qualcuno aveva pensato allo «scorpione», ma la proposta è stata subito scartata, perché ricordava un po’ troppo il soprannome di Benjamin Adenkule, un generale ribelle attivo durante la guerra del Biafra in Nigeria.
Così, il 31 Ottobre 1972, attraverso un decreto presidenziale nasceva il mito dei Leoni Indomabili. Il leone da solo, evidentemente, non era abbastanza per Félix Mbock: non soddisfatto, il ministro aveva fatto aggiungere l’aggettivo “indomabili” per rafforzare il concetto, come a voler esorcizzare per il futuro l’arrendevolezza con cui il Camerun pochi mesi prima era stato sbattuto fuori dalla Coppa d’Africa davanti al suo pubblico.
Sono neri, invece i leoni etiopi e della Teranga quelli del Senegal. Teranga è una delle parole più belle della misteriosa lingua wolof, un’idioma che non contempla un termine per indicare lo «straniero»: si usa per descrivere la tradizionale ospitalità del calorosissimo popolo senegalese. Mentre, qualche chilometro più a nord, possiamo sentire il ruggito dei Leoni dell’Atlante, cosi come sono popolarmente conosciuti i calciatori del Marocco. L’Atlante, d’altronde, ha un elevato potenziale simbolico-identitario: è una delle catene montuose più importante del continente, con la vetta più alta del Nordafrica (Jbel Toubkal, 4167 m), ed è citata anche da Virgilio nell’Eneide, oltre che presente persino sull’effige della monarchia shariffiana.
Non è l’unico caso in cui un riferimento geografico e territoriale partecipa alla costruzione di un soprannome. In Nordafrica la combo animale+elemento territoriale è di gran lunga la più gettonata. I libici, ad esempio, sono «I cavalieri del Mediterraneo», così come in Algeria possiamo sentir parlare delle «Volpi del Deserto». Altre volte, invece, il soprannome è figlio della cultura e del passato di un determinato luogo. Prendiamo ad esempio le «Aquile di Cartagine», l’appellativo con cui è conosciuta popolarmente la nazionale tunisina: rievoca palesemente gli antichi fasti della fiorente civiltà cartaginese, annientata dai Romani durante le guerre puniche. La stessa cosa vale per i Faraoni egiziani, così come per Eswatini, soprannominato lo «Scudo del Re», per sottolineare le origini del reame swazi, mentre i Mourabitounes (Mauritania), erano una una vecchia dinastia berbera regnante sul Sahara.
Le stelle kenyote, invece, devono il loro soprannome alla parole Harambee, un termine bellissimo rubato alla lingua swahili, che letteralmente significa «insieme» e simboleggia la comunione d’intenti di un popolo: «significa lavorare insieme per un ideale di collaborazione fattiva, generosa e disinteressata», ha detto una volta Jomo Kenyatta, il padre della patria kenyota, abbastanza appassionato di calcio, ma mai più presente allo stadio dopo una umiliante sconfitta per 13-2 incassata dal Kenya con il Ghana nel giorno in cui si celebrava l’indipendenza.
Di stelle, del resto, l’Africa è piena. Le più famose, senza ombra di dubbio, sono quelle «nere» del Ghana. Le Black Stars hanno preso in prestito il simbolo della compagnia di spedizioni di Marcus Garvey, un giamaicano terzomondista e profondamente antischiavista, utilizzando il tradizionale simbolo della lotta panafricanista. Lo ha spiegato molto bene William Narteh, uno storico del calcio ghanese, a Ian Hawkey, l’autore di Feet of Chamaleon: «La nazione ebraica ha la sua stella di David, le nazioni islamiche hanno la mezzaluna. Nella lotta panafricana abbiamo la stella nera».
A seconda della magnitudine e della loro presenza scenica, possono essere «luminose», come quelle del Sud Sudan, la nazione più giovane della terra, o può capitare di essere «solitarie», come nel caso della nazione liberiana fondata dagli schiavi liberati e ora presieduta da George Weah. La posizione geografica della Somalia, affacciata sull’Oceano Indiano, ne determina anche il soprannome: Ocean Stars. E rimanendo in Africa orientale, ma scendendo in Tanzania, scopriamo come un termine swahili come Taifa, che include concetti come razza e nazione, sia stato adoperato per definire la nazionale di un paese profondamente multiculturale e dove sono presenti le vestigia di tutte le grandi culture dell’antichità.
Dall’altra parte dell’Africa, quella che guarda l’Atlantico, invece, spopolano gli animali. Oltre al leone, comanda l’elefante, altro mammifero dalle infinite potenzialità allegoriche. Un elefante, ad esempio, è stato scelto dalla religione induista per rappresentare il Dio Ganesh, e tradizionalmente simboleggia saggezza, memoria e longevità.
Tutte qualità in cui si riconoscono, evidentemente, la Costa d’Avorio e la Guinea, che ne hanno fatto il proprio simbolo: addirittura il dittatore guineano Sekou Toure, primo tifoso dell’Hafia di Conakry, amava farsi chiamare Ba Elephant, papà elefante.
L’autorità di un superpredatore come il leopardo, poi, ha fatto breccia nei cuori dei congolesi, dopo che durante il governo dello swahililofono Laurent-Désiré Kabila la nazionale era conosciuta come Simba: «simboleggia la forza ed è rassicurante», dicono i congolesi intervistati da Jeune Afrique. Cosi come in Gabon le “Pantere” hanno sostituito l’azingo, un termine che in dialetto myene significa «sfortuna», quella che doveva portare ai rivali, e in Niger furoreggiano le «mena», ovvero una particolare specie di gazzella del deserto.
La storia più romantica arriva, però, dal Burkina Faso, dove gli Stalloni custodiscono un significato mistico-letterario.
Tutto nasce da una leggenda della tradizione orale molto cara al popolo mossi. Secondo questa storia, Dagomba, una principessa del regno del Ghana, si sarebbe allontanata da casa in sella al proprio cavallo bianco, perdendosi poco dopo nella boscaglia. Ad un certo punto, però, ha incontrato un principe cacciatore, con cui successivamente avrebbe avuto un figlio, chiamato Ouedraogo (cavallo bianco in lingua moorè, in onore del suo vecchio stallone), che in futuro è stato il fondatore del primo regno dei mossi.
Non sono animali di terra, ma anche i volatili sono stati presi in considerazione dalle nazionali africane.
Gli uccelli, come aquile e falchi, sono dotati di buona vista e regalano sempre un senso di protezione.
Celebri, in questo senso, sono le «Super Aquile» nigeriane e quelle del Mali, le «Gru» ugandesi, le «Rondini» del Burundi ma anche i «Falchi del deserto», simbolo del Sudan, o gli sparvieri togolesi. Non mancano nemmeno serpenti, come i Mamba del Mozambico, e insetti: i calciatori ruandesi, per dire, sono associati alle «vespe».
I pesci, come logico, trovano il loro habitat ideale sulle isole. Alle Comore, ad esempio, ci sono i Celacanti, una particolare varietà diffusissima nell’arcipelago, mentre le acque intorno a Capo Verde sono infestate dagli «squali blu». Un anfibio rappresenta, invece, il Lesotho: la nazionale del piccolo regno montuoso, interamente circondato dal Sudafrica, ha scelto la voracità famelica dei «Coccodrilli» per consolarsi di una innegabile modestia tecnica, anche se solo per un pelo ha mancato la storica qualificazione alla prossima Coppa d’Africa. Questa logica è stata sposata anche da altre piccole nazionali: ad esempio, alle Seychelles abbiamo i Pirati, in Zimbabwe i Guerrieri, che in Namibia diventano pure «Brave», cioè coraggiosi, e in Malawi le Fiamme.
Ci sono infine espressioni in lingua nativa, come i Bafana Bafana sudafricani (i nostri ragazzi in lingua zulu), e spesso anche una materia prima di cui un Paese è ricco può diventare un soprannome come nel caso dello Zambia (Proiettili di Rame), ma solo una nazionale può vantarsi di avere un appellativo dall’identità multipla: i Falchi e Pappagalli di São Tomé e Príncipe
Vinzenzo Lacerenza
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