«Siamo intervenuti tardi, non quando era necessario farlo. Il problema è cominciato praticamente nel 1972, quando il nome del Paese cambiò: non più “repubblica federale”, ma “repubblica unita”». È un passaggio della lunga intervista rilasciata a fine anno al canale camerunese Equinoxe Tv dal cardinale Christian Wiyghan Tumi, 89 anni, già arcivescovo di Douala. Molti i temi affrontati nel suo franco colloquio con gli intervistatori. Spicca la crisi del Camerun anglofono, che in quasi tre anni ha causato non meno di 3000 morti, centinaia di migliaia di sfollati interni e 40.000 rifugiati. Si ricorderà che gli indipendentisti hanno anche parlato della costituzione di una Repubblica dell’Ambazonia (nome mutuato da un fiume locale).
Tumi, egli stesso originario della Regione del Nord-ovest – area interessata, con la Regione del Sud-ovest, dal conflitto –, è stato tra i convinti promotori del Grande dialogo nazionale, che si è poi effettivamente tenuto i primi giorni di ottobre, anche se i risultati non sono stati quelli sperati, soprattutto a motivo dell’assenza di importanti leader ribelli.
In vista di questo evento, il gruppo di lavoro raccolto attorno al cardinale aveva condotto un’indagine sul sentire delle popolazioni coinvolte. Ne è uscito un rapporto di ben 400 pagine. «Le cause della crisi sono numerose», ha detto il prelato a Equinoxe Tv, evidenziando due punti: «Primo: la cattiva governance in tutto quel che riguarda ciò che è pubblico nel Paese. Secondo: credete che la secessione possa essere una soluzione? Ebbene, la maggioranza, nel momento in cui abbiamo fatto la nostra indagine, ha detto di sì». E, nell’alternativa tra federalismo e Stato unitario, il numero delle persone interrogate propense alla seconda opzione è di «quattro, non una di più», rispetto alle mille che si sono pronunciate per il federalismo. Senza contare che quest’ultimo viene a sua volta scavalcato dai separatisti – mentre il governo è più incline al “decentramento”, peraltro previsto dalla Costituzione e mai attuato, come ha ammesso un ex ministro al Grande dialogo nazionale. La questione è insomma complessa.
Particolarmente accalorata la denuncia fatta da Christian Tumi della repressione manu militari in numerose circostanze: «… il metodo di uccidere dell’esercito! Se viene ucciso un militare, l’esercito viene e ammazza tutti indiscriminatamente. L’esercito ha poi sempre smentito, dicendo che al massimo sarà stato qualche soldato isolato… Non è vero, non è vero! Andate a vedere sul terreno: non esiste la possibilità che i civili possano uccidere più dell’esercito».
Il cardinale nega di essere secessionista; esige però, e lo fa senza timore di innervosire il potere – incarnato da quasi quarant’anni dal presidente Paul Biya – che la voce degli anglofoni venga ascoltata e sia presa in seria considerazione. E a sostegno di ciò svela alcuni momenti della sua giovinezza, partendo da quando il Camerun anglofono faceva parte della Nigeria: «Venivano di là i funzionari, specialmente Ibo, perché erano i più vicini a noi. Eravamo amministrati dai britannici attraverso di loro. A noi ragazzi questo non piaceva. E quando si è cominciato a parlare di riunificazione tra i due Camerun, la prospettiva ci eccitava».
Il Camerun francese divenne indipendente il 1° gennaio 1960; il “Southern Cameroons” (corrispondente alle attuali Regioni del Nord-ovest e del Sud-ovest), scorporato dal Camerun britannico, vi si unì il 1° ottobre 1961. Presidente era Ahmadou Ahidjo. «Quando sono entrato in seminario – prosegue Christian Tumi – ho chiesto al mio vescovo: “Monsignore, perché continua a mandarci a studiare in Nigeria, anche dopo la riunificazione?”. Mi rispose: “È una questione politica”. E ho taciuto. Tre anni dopo la mia ordinazione, avvenuta nel 1966), dovendo continuare gli studi all’estero ho chiesto di andare in un Paese francofono. Volevo andare a Kinshasa, ma una settimana dopo Mobutu chiuse la facoltà e mandò tutti al servizio militare. Finii così per andare a Lione. Avevo cercato l’occasione di imparare bene il francese, oltre all’inglese, per sentirmi a casa dappertutto in Camerun, il mio Paese». Nessuna pulsione secessionista rispetto al Camerun francofono, insomma, nell’abbé Christian.
Tornando all’oggi – gli chiede uno dei conduttori della trasmissione –, che cosa conclude da questi due anni e mezzo di guerra? Che «la specificità di quella regione non è stata rispettata», risponde decisamente il cardinale. Quale specificità? «La maniera di governare. Noi eravamo stati educati nella democrazia, poiché i britannici governavano con l’indirect rule. Ascoltavano le persone. Hanno aperto strade che connettevano i villaggi, e le persone lavoravano gratis, ma per spirito di partecipazione. Non si vedevano praticamente poliziotti, e quei pochi erano degli amici. Non si vedeva mai l’esercito, perché non c’era bisogno di attaccare i cittadini».
«Con l’abolizione della repubblica federale – continua il prelato – è cambiato questo: da allora lo scopo era assimilare gli anglofoni, abolire la loro tradizione… Nel giro di pochi mesi, per esempio, tutte le insegne e le scritte erano già in francese». E termina con un aneddoto: «Un giorno mi trovavo a Roma, a un ricevimento cui era presente un diplomatico francese. Mi disse: “Ah, lei è camerunese? La ringrazio per tutto quello che fate per assimilare gli anglofoni”. Ecco l’origine dei nostri problemi!».
Ma la difesa di questa “specificità” giustifica che si impugnino, oggi, le armi? L’ex arcivescovo di Douala è netto: «Condanno che si prendano le armi per rivendicare tale specificità. Con la violenza non si può risolvere niente. Bisogna sempre incontrarsi, dialogare. Questa è la strada».
Qui la seconda e ultima parte del resoconto dell'intervista del card. Christian Tumi
(Pier Maria Mazzola)