Campi di battaglia urbani: l’Africa delle grandi rivolte

di claudia

di Federico Monica

Il 2024 sarà ricordato come l’anno delle grandi rivolte di piazza. Gli scontri in Senegal, Kenya, Nigeria, Uganda e Mozambico sono gli ultimi capitoli di una serie di movimenti popolari che da anni, con alterno successo, ridisegnano gli equilibri politici del continente. Protagonisti: i giovani, i social, le città.

A partire dalle primavere arabe i venti di sommossa sono proseguiti negli ultimi anni attraverso il Sahel, dove sono stati determinanti nel promuovere i putsch militari, in Sudan, causando la caduta del regime di al-Bashir, o in Nigeria, dove la mobilitazione giovanile portò nel 2020 allo scioglimento dei famigerati corpi di polizia Sars.

Eventi e fenomeni variegati che hanno alcuni tratti comuni principali: la forte partecipazione giovanile, il ruolo determinante dei social network e la centralità delle città come luoghi di protesta. Tre elementi che insieme sembrano fotografare alla perfezione l’Africa di oggi, sempre più giovane, tecnologica e urbanizzata. Nelle grandi metropoli le disuguaglianze economiche e sociali si fanno drammaticamente evidenti ed è proprio qui che nascono movimenti di protesta che, sfruttando le nuove tecnologie per diffondere idee e contenuti, affiancano studenti e giovani disoccupati dei quartieri periferici.
Per le classi politiche di molti Paesi le piazze sono oggi la minaccia principale alla loro sopravvivenza, ben più di criminalità o gruppi terroristici; aumentano quindi le risorse spese in addestramento ed equipaggiamento a forze speciali di polizia pronte a intervenire in contesti urbani. Anche grazie agli aiuti internazionali, con programmi di addestramento e dotazioni offerti da Stati europei per contrastare criminalità o immigrazione ma talvolta, come documentato in Senegal lo scorso anno, impiegati per reprimere con la forza le proteste popolari.

Foto di Luis Tato/ Afp

Le città diventano quindi un campo di battaglia in cui si confrontano da un lato le classiche strategie di controinsurrezione, come coprifuoco, posti di blocco, cariche e uso di lacrimogeni, dall’altro blocchi stradali, barricate con copertoni incendiati, assembramenti e cortei. Anche le geografie urbane e gli obiettivi simbolici si evolvono e trasformano: i luoghi caldi non sono più solamente i palazzi del potere politico ma anche i simboli dell’egemonia economica e culturale di Paesi stranieri, come catene di supermercati francesi, stazioni di benzina o tralicci di compagnie telefoniche, che sempre più spesso vengono assaltati o dati alle fiamme.

Alla fine degli anni Novanta, alti funzionari dell’esercito americano evidenziavano il pericolo costituito dalle città del Sud del mondo per gli eserciti tradizionali: alta densità di popolazione, vicoli tortuosi e scarsi punti di riferimento, scarsa visuale, scarsa accessibilità per plotoni o mezzi corazzati. Problemi non certo nuovi, che storicamente venivano risolti smembrando quartieri, aprendo ampie strade e spostando i centri di potere in aree più controllabili.
Alcune città, o meglio alcuni regimi, iniziano a organizzarsi proprio in questo senso: è il caso dell’Egitto, che oltre a spianare ampi quartieri informali – e storici – del Cairo con grandi arterie stradali ha iniziato l’epocale trasferimento di tutti i palazzi istituzionali in una nuova capitale distante 70 chilometri dall’attuale, e protetta da imponenti dispositivi tecnologici di sorveglianza degli accessi e riconoscimento facciale. Anche Paesi più piccoli come la Guinea Equatoriale stanno andando nella stessa direzione, trasferendo ministeri e presidenze dal centro città – loro naturale collocazione – a luoghi semi-inaccessibili nel cuore della foresta.

Mentre scrivo queste righe mi arriva una notifica sul telefono: un amico mozambicano, in un raro allentamento delle restrizioni alle connessioni internet, riesce a inviarmi un video da Maputo (vedi foto di apertura). È notte, la videocamera traballa riprendendo da un balcone una strada piena di poliziotti e mezzi militari in assetto da guerra. In sottofondo, un frastuono infernale e indecifrabile: da tutti i balconi della città, migliaia di persone affacciate sbattono coperchi di pentole e stoviglie, urlano o suonano vuvuzelas. L’effetto mette i brividi: neanche il coprifuoco e le armi spianate possono fermare la creatività, le voci e la voglia di libertà di un popolo.

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