Campi rifugiati o città di tende?

di claudia

Le recenti controversie fra Kenya e Somalia hanno riportato sotto i riflettori gli immensi campi rifugiati di Kakuma e Dadaab, insediamenti nati nei primi anni ’90 come rifugio temporaneo a sfollati dal Sudan e dalla Somalia che trent’anni dopo sono diventati vere e proprie città di centinaia di migliaia di abitanti.

di Federico Monica

Il 24 marzo scorso Fred Matiang’i, ministro degli interni del Kenya, ha posto un ultimatum di sole due settimane alle agenzie internazionali perché presentassero un piano per la chiusura definitiva dei campi profughi di Kakuma (nella foto in alto) e Dadaab. Com’era prevedibile, l’Alta Corte di Nairobi ha rinviato di un mese il procedimento che secondo un esposto delle opposizioni sarebbe in contrasto con i trattati internazionali sulla protezione dei rifugiati.

Un ultimatum che va inserito nel quadro delle recenti controversie sui confini marittimi fra lo stesso Kenya e la Somalia, paese di provenienza della maggioranza dei rifugiati ospitati nei campi, ma che non rappresenta una novità: più volte nel corso degli ultimi anni i campi rifugiati sono finiti nel mirino del governo Keniota, soprattutto in seguito ad attentati terroristici.

Proclami e minacce con un notevole peso politico ma che difficilmente hanno un seguito concreto in quanto si scontrano oltre che con la tutela dei diritti umani con la dimensione di campi nati come riparo provvisorio ma diventati vere e proprie città.

Lo status di città

Nell’immaginario comune questi insediamenti sono l’emblema dell’emergenza e della precarietà, distese regolari di tende da campo e teli in plastica realizzate a tempi record e destinate a scomparire altrettanto rapidamente. La realtà purtroppo è ben diversa: realizzati tra il 1992 e il 1994 i campi sono diventati centri stabili a causa del susseguirsi di crisi nella regione, tanto che la permanenza media di una famiglia è stata calcolata addirittura pari a 17 anni.

Dadaab sorge nella regione nord-orientale di Garissa, non lontano dal confine somalo. Un’anonima e minuscola cittadina sperduta nella savana che si trova oggi circondata da tre immensi campi distanti una decina di chilometri uno dall’altro. Una situazione simile a quella di Kakuma, nell’estremo nord, oltre il lago Turkana, dove in mezzo al nulla è sorta una città di duecentomila persone provenienti principalmente da Sud Sudan e Somalia ma anche da Etiopia, RD Congo e Burundi. 

I dati demografici del governo del Kenya non riportano fra i propri residenti i profughi di Kakuma o Dadaab, ma con i loro duecentomila residenti questi due centri rientrerebbero fra le 15 città più grandi del paese. Di più, la loro collocazione in aree di confine e scarsamente popolate li rende di gran lunga gli agglomerati più popolosi delle rispettive regioni.

Molti ricercatori concordano nel riconoscere lo status di città ai campi rifugiati del Kenya e non solo per il numero di residenti: seppure nati per essere provvisori e sperduti nel nulla questi insediamenti resistono da trent’anni e hanno modificato in maniera sostanziale l’economia e la società dell’area.

Trent’anni in cui in questi campi si nasce, si vive una quotidianità difficile ma fatta anche di normalità, si lavora, si muore. Nel campo di Kakuma ci sono ben cinque cimiteri, i mercati sono oltre una decina, innumerevoli le scuole per offrire istruzione a generazioni di bambini e ragazzi (il 50% dei rifugiati ha meno di 17 anni) che sono nati nel campo e non hanno mai conosciuto il loro paese d’origine.

Il campo rifugiati di Dabaad

La progettazione dei campi

Come nelle città di fondazione romana la forma urbana di questi centri si basa su una pianificazione rigida, con una maglia di strade ortogonali che disegnano isolati la cui dimensione è attentamente definita in base alla presenza di servizi: rubinetti d’acqua, latrine pubbliche, scuole e centri di distribuzione del cibo.

La progettazione dei campi è materia complessa e squisitamente tecnica: deve permettere di approntare i servizi essenziali in pochi giorni o addirittura in poche ore senza pregiudicare la futura funzionalità dell’insediamento e le sue espansioni future.

La popolazione infatti può fluttuare con rapidità, nel 2011 prima del rafforzamento della pace in Somalia e degli accordi bilaterali sui rimpatri nei campi di Dadaab i rifugiati erano il doppio degli attuali, quasi 450.000 persone.

C’è chi torna e c’è chi resta: tende e ripari di fortuna con il passare del tempo lasciano il posto a costruzioni via via più stabili, prima in lamiera poi in muratura, spuntano bancarelle lungo le strade e iniziano a diffondersi chiese, moschee, campi da calcio.

Di pari passo si rafforzano le attività economiche: nel campo di Kakuma ad esempio dopo il primo anno di permanenza soltanto un terzo delle famiglie dipende completamente dagli aiuti umanitari per sopravvivere, mentre la maggioranza ha trovato un impiego nel settore informale ma anche in attività formali o legate all’amministrazione del campo stesso. Un discorso analogo vale per le popolazioni locali che nel tempo tendono a trasferirsi in gran numero nei villaggi vicini ai campi per sfruttare le opportunità di commercio o legate alla presenza di infrastrutture e organismi internazionali.

Il confine con l’esterno

Ciò che differenzia Dadaab e Kakuma dalle città vere e proprie è però il loro confine con il mondo esterno. Un confine non sempre segnato da muri o recinzioni visibili ma altrettanto pesante: chi ha uno status di rifugiato secondo la legislazione vigente in Kenya è obbligato a vivere negli insediamenti ma soprattutto non può spostarsi senza un apposito lasciapassare.

Una situazione di isolamento e di segregazione che già da alcuni anni si cerca di superare con progetti pilota meno basati su un approccio puramente emergenziale; è il caso del nuovo insediamento di Kalobeyey a Kakuma, pensato come un quartiere semipermanente e misto, destinato sia ai rifugiati che a persone della comunità locale e che prevede inoltre la concessione di appezzamenti agricoli.

Un modello interessante che riconosce e rafforza una realtà importantissima: seppure segregati e in zone remote i campi non sono mondi a sé stanti ma hanno modificato radicalmente i territori e le dinamiche socio-economiche delle popolazioni locali che spesso basano la loro sopravvivenza sugli scambi commerciali con i rifugiati.

Oltre al dramma individuale dei rifugiati e ai problemi di un rimpatrio forzato è difficile pensare di poter cancellare con un ultimatum questo sistema complesso di interconnessioni, scambi e opportunità che nel bene e nel male influisce in maniera determinante sugli equilibri di regioni ancora instabili.

(Federico Monica)

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