Continua ad aggravarsi in Sudan il bilancio degli scontri tra l’esercito e i paramilitari delle Forze di supporto rapido, che dalla mattinata di sabato coinvolgono la capitale Khartoum e le principali città del Paese. Secondo quanto riferito dal Comitato centrale dei medici sudanesi, le persone uccise sono almeno 100 (tra cui tre operatori dell’Onu e un cittadino indiano), i feriti sono circa mille. Guarda le immagini del satellite che mostrano gli effetti delle battaglie a Khartoum.
I combattimenti sono tra le unità dell’esercito fedeli al leader de facto del Sudan, il generale Abdel Fattah al-Burhan, e le Forze di Supporto Rapido (RSF), comandate dal vice leader del Sudan, Mohamed Hamdan Dagalo, noto anche come Hemetti. Sia l’esercito che le Forze di Supporto Rapido sostengono di avere il controllo dell’aeroporto e di altri siti chiave di Khartoum, dove i combattimenti sono continuati nella notte. I leader dei due schieramenti si accusano reciprocamente di tentare un golpe militare. Al momento la situazione è caotica e non permette di delineare uno scenario nitido. Combattimenti intensi stanno coinvolgendo tuttora i quartieri dove si trovano i palazzi del potere.
Ma cosa sta accadendo in Sudan?
Gli echi delle esplosioni e delle raffiche di armi pesanti che ieri hanno svegliato la capitale Khartoum hanno fatto piombare nuovamente il Sudan nell’incubo di una nuova profonda crisi politica e militare.
Non che la violenza sia esplosa senza preavviso. Da settimane stava crescendo la tensione nel Paese – che da quattro anni ha imboccato una travagliata strada di transizione per la democrazia più volte interrotta da colpi di mano dei militari.
Ricostruiamo le tappe della crisi
Dopo la rivoluzione che nel 2019 ha rovesciato il regime del dittatore Omar al Bashir al potere per 30 anni, una roadmap avrebbe dovuto portare il paese al voto nel 2023.
Tuttavia, il 25 ottobre 2021, il governo di transizione in carica a Khartoum è stato rovesciato dai militari che hanno estromesso i politici civili prendendo il sopravvento.
Da allora, il Paese non ha più una costituzione, le libertà di espressione e di manifestazione sono state duramente soffocate e l’economia – già al collasso – è stata ulteriormente danneggiata dalla mancanza di investimenti, dall’aumento del debito e dallo stop agli aiuti allo sviluppo, il cui flusso si è interrotto dopo il golpe.
Gli scontri armati che stanno scuotendo la capitale sudanese sono una sorta di resa di conti finale tra due leader militari che di fatto si contendono il potere: da una parte c’è il capo del governo di transizione, il generale Abdel Fattah al Burhan (a sinistra, nella foto sotto), che controlla l’esercito ed è il principale protagonista del golpe militare del 2021 nonché responsabile della repressione seguita; dall’altra vicepresidente del Consiglio di transizione, Mohamed Hamdan Dagalo (a destra, nella foto sotto), a capo di una formazione paramilitare nota con il nome di Forze di supporto rapido. Il Generale Dagalo, noto anche come Hemetti, già comandante delle milizie Janjaweed, è stato accusato di un numero impressionante di crimini contro l’umanità per i massacri perpetrati nel Darfur e nel Kordofan.
Il braccio di ferro tra queste due generali, che da due anni guidano la giunta golpista, ha di fatto paralizzato il processo di democratizzazione più volte rivendicato dalla popolazione, fortemente voluto dalle Nazioni Unite e dai governi occidentali.
Lo scorso 5 dicembre, la giunta militare e le organizzazioni della società civile avevano raggiunto un accordo per una transizione di due anni che dovrebbe – o meglio avrebbe dovuto – mettere fine alla crisi in corso nel Paese.
L’intesa era stata stata siglata dal capo dell’esercito, Abdel Fattah al-Burhan, e dalle principale organizzazioni della società civile estromesse dal colpo di stato.
In un clima di generale sfiducia, la strada per la transizione democratica era ripresa: l’attuazione dell’accordo era il banco di prova per verificare se il passo compiuto rappresentava una svolta o se ci invece avrebbe portato all’ennesimo fallimento.
Purtroppo l’intesa tra militari e civili è ben presto saltata, comunque si è inceppata, come dimostra il mancato insediamento di un nuovo governo di transizione che, secondo gli accordi, avrebbe dovuto essere nominato questa settimana.
Il principale scoglio, il nodo da sciogliere, resta quello dello scioglimento dei paramilitari delle Forze di supporto rapido (Rsf), si dice sostenute dai mercenari russi del Gruppo Wagner e guidati dal numero due della giunta golpista, il generale Dagalo, che in sostanza si rifiuta di far confluire i suoi uomini nell’esercito regolare.
Ci tuttavia sono altri attori contrari all’accordo. In particolare i sostenitori del regime rovesciato nel 2019 che hanno ripreso vigore annunciando una nuova campagna per la liberazione dell’ex presidente Omar El-Bashir, incarcerato dopo la sua deposizione.
Il malumore serpeggia anche tra i gruppi armati rimasti fuori dagli accordi. Tra questi, in particolare, le milizie del Darfur che attualmente fanno parte della giunta militare al potere e che non intendono rimanere esclusi nel nuovo esecutivo
L’accordo, infine, incontra anche l’opposizione dei “comitati di resistenza”, principale gruppo di attivisti pro-democrazia che sono scesi per mesi in piazza per chiedere il ripristino del potere civile e delle garanzie costituzionali: decine di migliaia di donne, uomini, giovanissimi attivisti. A centinaia sono morti mentre manifestavano in piazza, uccisi dalla brutale soppressione delle forze di sicurezza. Oggi in tanti pensano che l’accordo siglato a dicembre sia un bluff, una beffa che offrirebbe l’impunità ai militari autori delle stragi, e non garantirebbe le libertà individuali e alcuna autonomia al potere giudiziario.
E’ presto per dire come andrà a finire. Al momento il processo di democratizzazione è stato bruscamente interrotto dai combattimenti. Vedremo chi preverrà tra il braccio di ferro dei generali.
La popolazione civile – ostaggio delle lotte intestine all’apparato militare – non è disposta ad assistere passivamente all’implosione dello stato sudanese. Lontano dai riflettori dei media occidentali, ha dimostrato di saper lottare strenuamente. I suoi ledear rifiutano qualsiasi negoziato con i militari. E tornano a indire manifestazioni.
La strada per la democrazia è ancora tutta in salita e piena di insidie. La comunità internazionale non dovrà commettere l’errore di lasciare soli il popolo sudanese, dovrà spingere per una ripresa dell’accordo che consenta il completo trasferimento di potere ai civili, per non consentire al Sudan di scivolare in una dittatura sempre più sanguinosa.