Giovedì, fin dalle prime ore del mattino, l’artiglieria senegalese ha preso di mira la località di Sikoun dove si trova lo stato maggiore di un comandante sepratista della Casamance, Adama Sané. I giornali non hanno dato spazio alla notizia e le informazioni sicure sono poche. Di certo l’esercito senegalese è impegnato nello sminamento delle zone al confine con la Guinea-Bissau, nelle operazioni di rientro delle popolazioni sfollate dei villaggi nel corso degli anni a causa del conflitto e nella lotta al traffico illegale di legname.
Quello della Casamance è un conflitto “dimenticato” e privo di copertura mediatica che va avanti dal 1982. Il 26 dicembre di quell’anno a Zinguinchor, la città principale della regione, una manifestazione del Mouvement des force democratiques de Casamance (Mfdc) fu bloccata dalla polizia con violenza, causando morti e feriti. Pochi giorni dopo, alcuni esponenti del Mfdc creavano “Atika”, l’ala armata del movimento indipendentista.
L’Mfdc denunciava la “confisca di terre indigene a beneficio delle popolazioni del nord del Senegal e degli imprenditori turistici, la prepotenza dell’amministrazione senegalese e il disprezzo culturale” verso la popolazione locale, che è in prevalenza di etnia diola e fede cristiana. La Casamance è separata anche fisicamente dal nord del Paese, stretta tra Gambia e Guinea-Bissau. Ha una geografia molto diversa da quella saheliana. È fertile, tanto da essere conosciuta come il granaio del Senegal. Tra scontri bellici, tregue e precari accordi di pace il conflitto non si è mai interrotto. La popolazione di interi villaggi è stata fatta sfollare per ragioni di sicurezza e il consenso della popolazione verso i ribelli è scemato nel tempo.
L’ Mfdc voleva l’indipendenza. Nessun presidente senegalese ha mai preso in considerazione questa possibilità. Quando Macky Sall è diventato presidente, nel 2012, ha dimostrato di essere disponibile al dialogo con i “fratelli” dell’Mfdc. Questa mano tesa è stata afferrata da Salif Sadio, comandante radicale del fronte nord, che ha accettato di negoziare con il governo sotto l’egida dei mediatori di Sant’Egidio, mentre l’altro leader, César Atoute Badiate, comandante del fronte meridionale, è stato tenuto fuori dalle discussioni.
Le divisioni interne hanno indebolito il Movimento, permettendo al governo senegalese di gestire la situazione con relativa calma in questi anni e facendo di quello della Casamance un conflitto a bassa intensità. La caduta di Yahya Jammeh, nel 2016, ha reso più forte la posizione di Dakar, perché ha privato Salif Sadio del suo principale sostenitore, l’ex presidente del Gambia. Questo ha spinto i ribelli verso la Guinea-Bissau. La capacità di attrazione dell’Mfdc verso i giovani è diminuita nel tempo, ma il suo potenziale di “disturbo” non è annullato. Come osservava Jean-Claude Marut, uno dei principali conoscitori del conflitto: “L’equilibrio di potere tra Stato e Mfdc si è evoluto in modo tale che qualsiasi azione militare della ribellione non può andare molto lontano, ma i ribelli sono ancora abbastanza armati per poter compiere operazioni simboliche”.
Negli ultimi anni le varie fazioni del movimento si sono rese responsabili di “operazioni simboliche” su obiettivi militari, umanitari e civili, mentre il rientro delle popolazioni sfollate procede a rilento, anche per le difficoltà legate a un controllo non totale del territorio.
È in questo quadro di grande stanchezza e opacità che nei giorni scorsi sono ricominciati gli scontri, innescati probabilmente proprio da quelle operazioni di sminamento portate avanti da Dakar in totale autonomia. Le basi principali del fronte meridionale del Mfdc sono cadute sotto i colpi dell’artiglieria senegalese questa settimana. I ribelli sono arretrati tatticamente ed è plausibile che stiano preparando una risposta. L’obiettivo dell’esercito è completare lo sminamento dei terreni e permettere il rientro degli sfollati. Quello dei ribelli è impedire che tutto ciò accada.
(Stefania Ragusa)