Casamance, guerra senza fine. L’analisi di Jean-Claude Marut

di Stefania Ragusa

Il 26 gennaio l’esercito senegalese è tornato ad attaccare le formazioni ribelli della Casamance, regione meridionale separata dal resto del Paese dal Gambia, e in cui dal 1982 è in corso un conflitto. Per fare il punto su questa “guerra senza fine”, abbiamo intervistato Jean-Claude Marut, ricercatore associato al laboratorio Les Afriques dans le monde (Cnrs-Sciences Po Bordeaux) e profondo conoscitore della regione.

Perché l’esercito senegalese ha ripreso le operazioni militari?
“L’attuale offensiva militare governativa al confine meridionale del Senegal mira a liquidare l’ultima sacca di resistenza significativa del Mouvement des forces démocratiques de Casamance (Mfdc) in Casamance. Questo è il risultato logico e prevedibile di un lungo processo di frammentazione e neutralizzazione della ribellione della Casamance avviato dallo Stato senegalese sin dal primo cessate il fuoco nel 1991, sotto la presidenza di Abdou Diouf, e proseguito con Abdoulaye Wade e con Macky Sall. A parte un piccolo gruppo più o meno collegato a Cassolol, l’obiettivo dell’attuale offensiva dell’esercito senegalese oggi è il gruppo di Sikoune, a Balantacounda, a est di Ziguinchor, guidato attualmente da Adama Sané. L’esercito senegalese giustifica la sua offensiva affermando di volere neutralizzare le bande armate che commettono abusi contro i civili e rendono l’area insicura; consentire il ritorno degli sfollati e dei rifugiati nei loro villaggi; contrastare il traffico di armi, droga, ecc. che attraversa la regione. Per i ribelli la posta in gioco è la loro sicurezza: il ritorno dei civili, come lo sminamento, offre all’esercito un pretesto per avvicinarsi alle loro basi. Lo Stato, che di fatto esclude ogni trattativa, sta utilizzando entrambi, ritorno e sminamento,come mezzi di pressione su un movimento ribelle che ha la pretesa di rappresentare la popolazione della Casamance”.

Jean-Claude Marut

Ma perché l’offensiva è ripresa proprio ora?
“Dalla metà degli anni ’90, l’equilibrio del potere si è costantemente spostato a favore dello Stato senegalese. La ribellione ha perso gradualmente molto del suo sostegno interno e la maggior parte di quello esterno: i nuovi regimi eletti in Gambia (2017) e Guinea-Bissau (2019) sono alleati di Dakar. L’esercito senegalese è fortemente presente in Gambia. E l’esercito bissau-guineano sta collaborando all’offensiva monitorando il confine con il Senegal. Da quando Macky Sall è al potere nel 2012, gli scontri diretti sono quasi cessati (una situazione di “né pace né guerra”). Era il momento giusto per cercare di eliminare l’ultimo gruppo incontrollato, non impegnato in colloqui diretti o indiretti con lo Stato, e screditato dalla sua violenza contro i civili. Per lo Stato, l’annientamento di questo gruppo segnerebbe la fine della lotta armata, rendendo superflua qualsiasi trattativa”.

Il Senegal è uno dei paesi firmatari della Convenzione di Ottawa e lo sminamento del territorio è sicuramente un bene, ma il modo in cui si sta procedendo favorisce effettivamente il processo di pace?
“Per quanto legittimo sia, lo sminamento in assenza di un accordo di pace sembra difficile da raggiungere. I ribelli del Mfdc hanno infatti minato l’accesso alle loro posizioni per proteggersi, così come hanno fatto i militari per le loro stesse posizioni, e hanno anche minato l’accesso alle aree (frutteti, foreste, ecc.) che contribuiscono alla loro economia di guerra. Quindi è inevitabile che si oppongano allo sminamento. Cesar Badiate (leader di una delle fazioni del Mfdc, ndr) aveva anche accennato alle linee rosse da non varcare: gli sminatori sono già stati rapiti per aver ignorato questo avvertimento. Ciò spiega la lentezza dello sminamento lungo il confine Bissau-Guinea: attualmente è stato raggiunto meno del 10% dell’obiettivo.
Questo è il motivo per cui il desiderio dello Stato di accelerare il ritorno delle popolazioni nei loro villaggi in realtà espone proprio queste a grandi rischi. Tanto più che, per proteggersi durante l’offensiva attuale, i ribelli deporranno sicuramente nuove mine”.

Quali sono, a suo avviso, le condizioni necessarie per una soluzione del conflitto?
“Una soluzione militare, che prevedesse la restituzione delle armi e un’integrazione degli ex combattenti, potrebbe forse porre fine al conflitto. Ma per quanto tempo? A mio parere, questo conflitto su può risolvere solo se si torna a ciò che lo ha causato. Il conflitto della Casamance nasce in primo luogo dal rifiuto da parte dello Stato senegalese di riconoscere un punto di vista politico. Qualunque cosa si pensi, la richiesta di indipendenza esprime un punto di vista politico. È questo rifiuto che è all’origine del conflitto. La marcia per l’indipendenza del 26 dicembre 1982 a Ziguinchor è stata effettivamente repressa con molta durezza militare e giudiziale. Ciò significa che questo punto di vista politico non poteva e non può ancora essere espresso pacificamente.
Lo dimostra il fatto che, ancora nel 2020, una delle fazioni più importanti tra i ribelli, quella di Salif Sadio, impegnata per 8 anni in colloqui con lo Stato senegalese, tenuti a Roma con la mediazione della Comunità di Sant’Egidio, e avendo addirittura decretato un cessate il fuoco unilaterale in segno di buona volontà, è stata bandita dalle assemblee pubbliche nella sua zona, alcuni dei suoi attivisti sono stati addirittura arrestati. È vero che la Costituzione della Repubblica del Senegal vieta i partiti basati su affiliazioni regionali, etniche o religiose. Ma questo divieto non ha portato alla messa al bando dei partiti religiosi. E nulla impedirebbe di modificare la Costituzione su questo punto.
Resta il fatto che l’attuale Costituzione riconosce anche la libertà di espressione: perché negarla allora ai separatisti, dal momento in cui hanno abbandonato la lotta armata?
Il riconoscimento della libertà di espressione da un punto di vista indipendentista e una modifica della Costituzione sarebbero quindi, a mio avviso, le prime condizioni per creare fiducia e costruire una pace duratura: ponendo fine alla criminalizzazione del Mfdc, consentirebbero la sua transizione dalla lotta armata alla lotta politica. E l’immagine del Senegal, come vetrina di democrazia nel continente africano, ne sarebbe solo rafforzata”.

Come, secondo lei, questo conflitto viene trattato a livello mediatico: ci sono aspetti cruciali che non risaltano?
“Sia in Senegal che fuori, in Europa in particolare, il trattamento mediatico del conflitto è molto spesso limitato agli eventi, senza cercare di metterlo in prospettiva, oppure viene inserito in una dimensione etnica che non spiega nulla. Raramente inoltre si analizza il “processo di pace” dello Stato senegalese e il sostegno che sta ricevendo in questo dagli Stati Uniti: tutto mostra che questo processo non ha altro scopo che quello di accelerare l’indebolimento della ribellione, rendendo inutile qualsiasi trattativa. Il coinvolgimento americano invece è uno di questi punti ciechi dell’approccio mediatico: come spiegare che la prima potenza mondiale è coinvolta nella risoluzione di uno dei più piccoli conflitti del continente?”

(Stefania Ragusa)

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