Territorio e urbanizzazione a cura di Federico Monica
di Federico Monica
Frane, crolli, quartieri distrutti o isolati: le ferite della drammatica alluvione che ha colpito il capoluogo della regione africana del kwaZulu-Natal sono ancora evidenti, ma fra le montagne di detriti che ricoprono le spiagge rifioriscono la solidarietà e l’impegno civile di molti residenti impegnati in prima persona a ripulire la città dai rifiuti.
Decine di persone in pettorina gialla e spessi guanti di gomma si aggirano lungo la spiaggia di Durban, nei pressi della foce del fiume Umgeni, là dove solitamente gruppi di surfisti trascorrono i pomeriggi in attesa dell’onda giusta. Il magnidicente stadio alle loro spalle e gli imponenti grattacieli della downtown sembrano lontanissimi, quasi nascosti da enormi cumuli di rifiuti in cui tronchi d’albero levigati dalla furia delle acque si alternano a plastiche di ogni sorta, pezzi di lamiera, carcasse di animali, stracci, addirittura un’autocisterna arrivata da chissà dove.
È il liberation day, la festa nazionale che celebra la nascita del nuovo Sudafrica post-apartheid, ma la città non ha molta voglia di festeggiare: la memoria della disastrosa alluvione che ha colpito la regione del kwa Zulu-Natal fra l’undici e il tredici aprile causando almeno 435 vittime e oltre 50 dispersi è troppo viva.
L’acqua ha travolto ogni cosa: township e insediamenti informali, strade, aree residenziali, infrastrutture strategiche come il porto, lo scalo ferroviario e la raffineria. Le onde dell’oceano ributtano a riva giorno dopo giorno montagne di rifiuti trascinati fino al mare dalla corrente, frammenti di vite quotidiane travolte e devastate in pochi attimi.
Al posto dei tradizionali barbecue che punteggiano il seafront della città ecco però che centinaia di persone si ritrovano per ripulire palmo a palmo le spiagge, un modo diverso di celebrare la festa nazionale e non solo. Dai giorni del disastro infatti si contano ormai a decine i “cleanup”: eventi organizzati da volontari o associazioni di vario tipo in cui giovani e meno giovani, ambientalisti o sportivi, persone comuni e docenti universitari, Durbanians o expats lavorano fianco a fianco per la propria città. “Raccogliamo soprattutto la plastica, il metallo e gli oggetti pericolosi come le batterie, separandoli in grandi sacchi in modo che possano essere smaltiti in discarica” racconta Andhile, un giovane volontario, nel mentre la strada si affolla di camionette della polizia: sta per arrivare proprio lì la ministra dell’ambiente ma a lui e al suo gruppo interessa poco delle passerelle politiche.
Poco più giù, di fronte alla piazza monumentale in cui la Kaseme street raggiunge il mare, la spiaggia brulica di ragazzi e ragazze interamente vestiti di rosso brillante. Le scritte stampate a caratteri cubitali sulle magliette e sui cappellini indicano che si tratta dei giovani atleti del Summerfields Dynamos, una squadra di calcio della seconda serie nazionale.
“Ogni tanto ci alleniamo proprio su questa spiaggia, ci sembrava il minimo dare una mano in prima persona” racconta uno dei responsabili della società mentre i ragazzi più giovani si scattano selfie sorridenti con i sacchi neri sulle spalle.
In mezzo a tanta distruzione questi piccoli gesti apparentemente così semplici sono veri e propri bagliori di speranza. Ma l’impegno di individui e associazioni non basta: oltre a rimboccarsi le maniche è necessario anche interrogarsi sulle cause e sulle responsabilità del disastro.
“Quelle dei beach cleanup sono ottime iniziative, soprattutto per la sensibilizzazione dei giovani sui temi ambientali, ma attenzione: non possono sostituirsi alle doverose attività di smaltimento rifiuti da parte delle istituzioni, specialmente della municipalizzata di Durban, troppo spesso assente e inefficiente” precisa la professoressa Cristina Trois, ingegnere ambientale responsabile del settore rifiuti e cambiamenti climatici dell’Università del kwaZulu-Natal.
“La vera sfida per la città è implementare una sistematica raccolta differenziata” prosegue la professoressa Trois “soprattutto nelle townships e nelle aree informali che oggi sono escluse dai servizi di raccolta municipali e che di conseguenza sono fra le cause principali dell’arrivo in mare di montagne di rifiuti, soprattutto dopo eventi piovosi estremi come le ultime inondazioni”.
È quasi mezzogiorno, le magliette colorate continuano instancabili a lavorare sulla spiaggia, sui gruppi WhatsApp e Facebook arrivano già le date dei prossimi appuntamenti, la voglia di prendersi cura della propria città torna a farsi sentire anche se i problemi a monte rimangono. Riuscirà questo entusiasmo a contagiare finalmente anche le istituzioni?