Non si può discutere di questioni serie come la decolonizzazione in termini di propaganda politica da utilizzare come clava contro avversari. La questione della fine delle colonie ci vede tutti (noi europei) responsabili. Anche gli italiani, che tendono a rimuovere quella pagina.
La recente memoria della strage di Debra Lebanos del 1937 in Etiopia (il massacro di migliaia di giovani monaci cristiani ortodossi perpetrata agli ordini di Graziani) non può che renderci umili. Ma tant’è: ora si vocifera delle responsabilità della Francia in termini di neocolonialismo economico, tramite franco Cfa.
Iniziamo col dire che tale polemica antifrancese di Di Maio e Di Battista sulle colonie francesi è roba vecchia. Il dibattito sul neocolonialismo alla parigina, sul franco Cfa e sul resto, data dagli anni Sessanta e furoreggia a fasi alterne soprattutto in Francia e fino ad oggi. Niente di nuovo sotto il sole, nessuna “verità” improvvisamente scoperta. Se questo poi serva per costruirsi un “nemico perfetto”, è un’altra storia.
Da sempre le sinistre europee si sono trovate d’accordo con i liberisti anglosassoni nella critica alla Françafrique (come si chiamava), e del Cfa. Per le prime non era vera decolonizzazione; i secondi erano e sono contrari al monopolio di un mercato protetto governato paternalisticamente. I sostenitori invece affermano ancora oggi che la “zona franco” ha portato stabilità. La questione è controversa e di non facile lettura.
A Parigi il tema è talmente sentito che qualche anno fa Sarkozy fece passare una legge sull’eredità coloniale mettendo in luce la parte – a suo dire – positiva. In Francia ci fu una levata di scudi. Poi la legge fu cambiata. Nella sinistra francese la questione è ancora lacerante, tra chi tiene alla grandeure chi la contesta. Il franco Cfa infatti è uno degli strumenti con cui la Francia ha tenuto assieme le sue ex colonie in un quadro politico ed economico dato: quello della guerra fredda. Favoriva infatti l’ancoraggio africano al blocco occidentale durante lo scontro bipolare. Vi era anche un aspetto di prestigio geopolitico: il generale De Gaulle considerava l’Africa francofona un modo per contare di più, per esempio all’Onu.
Certo vi è stato anche un lato oscuro della Françafrique: cambi di regime, fedeltà imposte, corruzione, scambi. Di questo sono piene le biblioteche francesi: quindi anche qui nulla di nuovo. Sappiamo che chi provò a ribellarsi finì male come Sankara in Burkina Faso, o isolato come il guineano Sékou Touré. Non che l’alternativa all’influenza francese fosse migliore: basta guardare alla storia dei Paesi africani anglofoni, alle loro guerre civili, ai colpi di Stato, ecc. Gli stessi regimi di Conakry e Ouagadougou furono durissimi con la popolazione, a parte la retorica vetero-marxista.
Dal punto di vista economico si dibatte ancora se la “zona franco” abbia o no favorito lo sviluppo in Africa: le opinioni sono divise anche a Parigi. L’Fmi, ad esempio (che non è certo un modello di sensibilità per l’Africa), è stato sempre contrario. La realtà è che mantenere il franco Cfa è costato più a Parigi di quanto ci abbia guadagnato. Le Finanze d’oltralpe hanno spesso dovuto coprire i buchi che i leader africani provocavano con la loro finanza allegra. Chi può dire di averci guadagnato è stata la parte del settore privato francese che investe in Africa, eliminando i concorrenti europei dentro il suo monopolio. Le leadership africane francofone sono state in maggioranza favorevoli alla zona, come forma di economia protetta: un’assicurazione sulla carriera.
Ma non è diverso da tante dollarizzazioni latinoamericane. Mitterrand svalutò il Cfa contro il parere di Chirac (il più “francoafricano” dei presidenti francesi dopo De Gaulle). La volontà di Parigi di difendere la propria “zona” monetaria con esborsi continui è diminuita con il tempo anche nei ministeri: le Finanze francesi volevano smettere di pagare. Anni fa ci furono rivelazioni, scandali, giudizi, inchieste… A un certo punto l’equilibrio della Françafrique si è spostato a favore dei partner africani: leader longevi che avevano conosciuto tanti presidenti e ministri francesi avevano un’ottima consapevolezza dei pesi e contrappesi e delle lotte interne alla politica francese. Ormai era l’Africa a incidere sui processi politici parigini e non più il contrario. Gli africani erano diventati così abili da influenzare Parigi tanto che i polemisti d’oltralpe cominciarono a parlare di Afriquefrance e non più di Françafrique…
Tutto sommato la Francia ci ha rimesso, sicuramente in termini economici e talvolta anche politici. La maggioranza dell’opinione pubblica francese non ha mai avuto gran simpatia per la Françafrique. Ancor meno il mondo delle ong o le Chiese. Con gli ultimi presidenti (Sarkozy, Hollande e Macron) la questione ha perso peso: la fine della guerra fredda e l’inizio della globalizzazione ha fatto crollare l’interesse francese per quell’area. Ora Parigi vorrebbe dei partner per presidiare l’ex Africa francofona, come nel caso del Mali. L’onnipotente cellula africana all’Eliseo è ridotta a un ufficetto; il ministero della Cooperazione è assorbito dall’Agenzia della cooperazione. Restano solo alcune reti di influenza del settore privato. La Francia istituzionale ha fatto i conti con il passato e già da tempo ha cambiato rotta. Tornare su tale polemica è come tornare agli anni Ottanta.
È bene concludere con due osservazioni chiave. La prima è che la zona franco-africana, grazie alla comunanza della lingua, ha prodotto molto in termini di educazione e cultura, avvicinando due mondi che erano lontani. La fine della colonizzazione ha offerto agli africani una via privilegiata verso Occidente, tramite la Francia. L’altra è che le alternative postcoloniali furono anche peggiori, come quella sovietica o cinese, e soprattutto quella del disinteresse e dell’abbandono completo praticato da altre potenze ex coloniali. Con ciò che poi è accaduto e accade in Somalia, Eritrea o Libia… noi italiani è meglio che stiamo zitti.
Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Mondadori La globalizzazione difficile.