Il male è più profondo, causato dal conflitto, e non è stato ancora risanato. Non c’è stata vera davvero riconciliazione tra Nord e Sud, la gente vive ancora nel sospetto e nella paura. Gli ivoriani non si sentono un unico popolo, come in passato. L’etnicismo utilizzato per le lotte di potere ha lasciato dietro di sé una scia di odio che ancora arde sotto le ceneri
Laurent Gbagbo, ex presidente della Costa d’Avorio, è stato prosciolto da ogni accusa dalla Corte Penale Internazionale e subito liberato dopo anni di inchieste. Notizia bomba per il Paese africano ma anche per tutta l’Africa occidentale.
La Costa d’Avorio è il Paese più ricco e sviluppato dell’area; da sola pesa oltre la metà della massa monetaria del franco Cfa, la moneta unica delle ex colonie francesi. Dopo la Nigeria e assieme al Ghana, rappresenta il maggiore Pil. È il primo produttore di cacao al mondo, tra i primi di caffè e di altre materie agricole. Molti investitori stranieri ci scommettono da tempo.
Tuttavia dal 1999 al 2010 è stata preda di una crisi e di un conflitto interno che ne ha scardinato la fisionomia e incrinato la struttura sociale, tanto da divenire un Paese di migrazione malgrado una crescita di oltre 6% da almeno 8 anni. Esempio di stabilità e schierata decisamente nel campo occidentale, la Costa d’Avorio è stata la vetrina della Francia in Africa.
Governata fin dall’indipendenza dal vecchio Houphouët-Boigny (un fedele di Parigi che fu ministro francese durante la quarta repubblica), la Costa d’Avorio era diventata anche il simbolo dell’integrazione africana: un terzo dei suoi abitanti è di origine straniera (cioè figli di immigrati dei Paesi vicini come Mali, Guinea, Niger ma soprattutto Burkina Faso). Per anni fu il «Paese della pace e della fraternità» dove tutti potevano trovare lavoro nelle immense piantagioni di cacao, eredità del colonizzatore francese, che aveva trasformato quella terra in un’area di coltura estensiva da esportazione.
La produzione ivoriana era in grado di influire sul corso mondiale di vari prodotti. Abidjan era divenuta una capitale moderna con grattacieli, autostrade e vita notturna, si faceva sci acquatico nella sua laguna… Un pezzo d’Europa in Africa. Poi qualcosa si è rotto. La vecchiaia di Houphouët che non trovava un erede, l’entrata in gioco di altri produttori come la Malaysia, la crisi economica degli anni Novanta (quelli dell’abbandono dell’Africa da parte degli ex colonizzatori e degli occidentali in genere), l’emersione delle differenze tra Nord e Sud del Paese sullo sfondo della crisi agricola: tutto questo ha rotto la vetrina trasformandola in un incubo.
Nel 1993 Houphouët muore: ne nasce subito una crisi di successione tra il primo ministro Ouattara e il presidente del Parlamento Bédié. Si impone quest’ultimo anche perché della stessa etnia del presidente-fondatore appena scomparso. Il nuovo leader cerca l’apertura nella continuità ma il sistema non funziona più: a Natale del 1999 l’esercito si solleva e l’ammutinamento si trasforma presto in colpo di Stato. Fu un trauma per un Paese abituato a una vita pacifica e orgoglioso di questa sua differenza rispetto ai vicini.
Sale al potere l’anziano generale Guéï, che promette elezioni subito ma poi vorrebbe restare. L’opposizione fa muro e su pressione internazionale le elezioni vengono bandite per la fine del 2000. I maggiori candidati sono Alassane Ouattara e Laurent Gbagbo. La terza forza, il partito democratico nazionale dell’indipendenza, è presente ma fuori gioco. Ouattara, che è stato premier di Houphouët, è considerato un tecnocrate: viene dal Fondo monetario internazionale e ha alle spalle una solida carriera nell’economia internazionale.
Gbagbo è insegnante e sindacalista, oppositore da sempre, spesso carcerato ed esiliato negli anni d’oro della Costa d’Avorio. I rispettivi partiti sono – come spesso in Africa – double face. Recto, il Raggruppamento dei repubblicani (Rdr) di Ouattara è liberale e legato agli ambienti finanziari mondiali; verso, è il partito del Nord, dei musulmani e dei figli degli immigrati. Il fronte popolare di Gbagbo (Fpi) è invece da un lato il partito socialista, rappresenta la sinistra; dall’altro è la forza del Sud cristiano, degli autoctoni, degli anti-immigrati. Ovviamente si tratta di semplificazioni demagogiche perché la Costa d’Avorio ormai è mista, ma divengono armi micidiali. Tra i due si ingaggia una battaglia fatale che porterà la Costa d’Avorio alla guerra: Nord contro Sud (che qualcuno vorrebbe trasformare in musulmani contro cristiani), “veri ivoriani” contro figli degli immigrati, “gente della terra” contro lavoranti stranieri e così via. La dialettica su chi sia realmente ivoriano si tinge di sangue in una spirale senza fine.
Alle elezioni vince Gbagbo («in modo calamitoso», come lui stesso dirà). I risultati sono contestati ma il suo governo dura solo due anni: nel 2002 una ribellione nel Nord spacca il Paese in due. Seguono otto anni di conflitto tra ribelli nordisti delle Forze Nuove guidati dal giovane leader Guillaume Soro, e lealisti di Gbagbo. Spettatori i sostenitori del vecchio partito democratico dell’indipendenza, ultimi epigoni di un passato finito. Militarmente non prevale nessuno, ma il Paese è nel caos: economia bloccata, interferenze straniere, traffici, armi, nessuna legalità.
Da entrambi i lati si commettono massacri mediante squadracce della morte (era una delle accuse a Gbagbo all’Aia); tutto è fuori controllo. A Nord, zona ribelle, le scuole sono chiuse e così pure gli ospedali, ogni sudista viene cacciato, i capi ribelli si arricchiscono con traffici illeciti. A Sud, tra i lealisti si attaccano le installazioni culturali francesi (Parigi è sospettata di favorire i ribelli) e si fa la caccia al nordista, prevale l’economia di guerra. Cresce il razzismo etnico nel Paese.
La comunità internazionale tenta varie mediazioni (Togo e poi la Francia stessa) fino a quella decisiva del Burkina Faso e della Comunità di Sant’Egidio, che organizzano il “dialogo diretto” tra lealisti e ribelli nel 2007 a Ouagadougou. Il 4 marzo di quell’anno si firma la tregua definitiva e la pace. La calma torna nel Paese, ma le ferite restano aperte: in nome del Nord Ouattara (rimasto lontano dal conflitto) torna a contendere la presidenza a Gbagbo e al vecchio Bédié ancora combattivo. I ribelli non fondano un loro partito ma si schierano con l’ex premier. Le elezioni del 2010 giungono purtroppo a un’impasse dove entrambi i due maggiori leader si dichiarano vincitori. Ma l’Onu, presente in forze nel Paese dalla firma del 2007, sanziona la vittoria di Ouattara.
Gbagbo non vuole lasciare e si trincera nella sua residenza. È l’ultimo atto della crisi: viene arrestato con la forza e poi trasferito all’Aia. I suoi avversari speravano che la giustizia internazionale potesse sbarazzarli di un personaggio così ingombrante, e invece la sua liberazione, ai primi di febbraio, giunge in un momento particolarmente delicato. Dal 2010 Ouattara ha governato senza avversari in coalizione con il vecchio partito democratico nazionale di Houphouët e Bédié. Ma ora che deve lasciare il posto (ha fatto i due mandati costituzionali) si è innescata una nuova battaglia di successione: l’ex capo ribelle Soro voleva succedergli (probabilmente in forza di un vecchio accordo post-guerra), ma è stato frenato e messo da parte al punto da decidere di schierarsi con il partito di Bédié. Così la colazione che ha governato in questi anni si è sciolta.
Il ritorno del terzo incomodo Gbagbo potrebbe scompaginare tutto il quadro. Non si tratta tuttavia solo di un gioco politico ai tropici tra sinistra (Gbagbo), liberali (Ouattara) e nazionalisti (Bédié-Soro). Il male è più profondo, causato dal conflitto, e non è stato ancora risanato. Non c’è stata vera davvero riconciliazione tra Nord e Sud, la gente vive ancora nel sospetto e nella paura. Gli ivoriani non si sentono un unico popolo, come in passato. L’etnicismo utilizzato per le lotte di potere ha lasciato dietro di sé una scia di odio che ancora arde sotto le ceneri e che tra l’altro spinge i giovani a emigrare. Ai poliziotti che li interrogano al loro arrivo sui barconi in Italia, domandandogli perché fuggire da un Paese in crescita, gli ivoriani rispondono: “Da noi non si può vivere: non è vera pace, c’è la guerra nei cuori”.
Mario Giro è docente di relazioni internazionali. Già viceministro degli Affari esteri e responsabile delle relazioni internazionali della Comunità di Sant’Egidio. Esperto in mediazioni e facilitazioni nei conflitti armati, cooperazione internazionale e sviluppo, Africa, Medio Oriente e America Latina. Autore di vari saggi e collaboratore di numerose riviste, ha recentemente pubblicato per Mondadori La globalizzazione difficile.