Un rogo avvenuto nella notte fra sabato e domenica nel mercato principale di Dar es Salaam, capolavoro del modernismo architettonico africano, riapre il dibattito sulla tutela del patrimonio delle città del continente. Edifici o quartieri storici sono visti spesso come un ostacolo allo sviluppo urbano, ma rappresentano in realtà l’identità profonda di città che rischiano altrimenti di diventare agglomerati senza un’anima.
Nella notte fra sabato e domenica un grande incendio ha distrutto l’importante mercato di Kariakoo, nel cuore di Dar es Salaam, invadendo il centro della città con una colonna di fumo visibile a chilometri di distanza. Le cause del rogo non sono ancora chiare anche se la stampa locale sottolinea una coincidenza sospetta: soltanto pochi giorni fa la presidente Samia Suluhu aveva rimosso i vertici del mercato stesso accusati di non operare nell’interesse dei piccoli commercianti.
Oltre agli enormi danni economici il grande interrogativo riguarda le condizioni strutturali e il futuro di un edificio che non può essere considerato una costruzione qualsiasi: il mercato Kariakoo (in apertura) è infatti una delle architetture più significative del cosiddetto Modernismo Africano, uno stile originale e unico nato negli anni delle indipendenze come emblema della rinascita del continente dopo il periodo coloniale.
Elementi del razionalismo, forme pure, utilizzo creativo del cemento armato e degli elementi strutturali sono alcune delle caratteristiche comuni a questo movimento trasversale e continentale che ha lasciato testimonianze in quasi tutte le capitali del continente.
La Pyramide e l’hotel Ivoire ad Abidjan, l’arco dell’indipendenza di Accra, la fiera di Dakar o il Kenyatta center a Nairobi sono fra gli esempi più famosi di questi edifici imponenti e all’epoca estremamente innovativi, nati sull’onda dell’ottimismo degli anni sessanta e settanta.
I protagonisti furono architetti di tutto il mondo, dal blocco sovietico o dall’Europa occidentale fra cui alcuni italiani come il veronese Rinaldo Olivieri, autore oltre che della Pyramide di molte altre opere in Costa d’Avorio, ma anche diversi architetti africani laureati in Europa e tornati nel continente per contribuire alla rinascita delle nuove nazioni, come il progettista dello stesso mercato Kariakoo Beda Amuli.
L’edificio era concepito come una grande piazza coperta da una serie di elementi in cemento armato simili a piramidi rovesciate affiancate fra loro ricreando una superficie organica e leggera e giochi di luci ed ombre suggestivi. Il cemento sembrava diventare un sottilissimo tessuto elastico deformato e tenuto in tensione da tiranti, un modello originale e ben diverso dai banali edifici che spesso ospitano i mercati coperti o dai nuovi mall anonimi di ispirazione mediorientale.
Patrimonio storico a rischio
Il rogo di Dar es Salaam e il rischio che la struttura sia irrimediabilmente compromessa riapre prepotentemente il dibattito sulla conservazione delle architetture storiche nelle città africane, in cui la crescita vertiginosa rischia di travolgere e cancellare tradizioni, testimonianze e peculiarità locali in nome dell’efficienza o della speculazione edilizia. Le perdite negli ultimi anni sono state enormi, e se alcune città come Asmara hanno fatto della conservazione del passato un punto imprescindibile altre, la maggioranza, stanno perdendo progressivamente l’identità storica e il tessuto urbano tradizionale.
Non si tratta solo di speculazione: il dibattito fra una visione “efficientista” e modernista della città e una più romantica e rivolta a preservare le tracce del passato è presente da sempre e attraversa le diverse culture con intensità variabili.
Anche nelle città africane la discussione è accesa: pochi mesi fa, all’indomani di un piccolo incendio al “Cotton Tree”, l’immenso albero secolare simbolo di Freetown diverse persone arrivarono a chiederne l’abbattimento per sostituirlo con un monumento “più pulito e sicuro” o addirittura con un palazzo commerciale. Se la tendenza a modernizzare prende spesso il sopravvento non mancano le iniziative dal basso che vedono lo sviluppo non necessariamente contrapposto alla tutela del patrimonio e iniziano a battersi per affermare questa visione. “Stiamo perdendo troppo del nostro patrimonio storico, lo sviluppo urbano non ha tempo per considerare la cura del patrimonio architettonico e dobbiamo agire in fretta, prima che le nostre città si trasformino in una copia anonima delle città asiatiche.” sostiene Dawit Benti, promotore dell’associazione di storici dell’architettura etiopi SAHE, che sta nascendo con l’obiettivo ambizioso di indirizzare le politiche urbane verso la salvaguardia di edifici, monumenti o quartieri.
Una sfida difficile, destinata a contrapporsi a interessi economici enormi e meccanismi politici calcificati ma che non è più procrastinabile; una sfida innanzitutto culturale, per ribadire che il patrimonio storico non è un ostacolo allo sviluppo e all’efficienza ma rappresenta al contrario l’anima profonda e non negoziabile di una città.
(Federico Monica)