In parallelo alle operazioni militari volte a mettere in fuga in Centrafrica i gruppi ribelli della Coalizione dei patrioti per il cambiamento (Cpc), un’iniziativa diplomatica ha avuto come protagonista la Conferenza internazionale regionale dei Paesi dei grandi laghi (Cirgl) e il suo presidente di turno, il capo di Stato angolano Joao Lourenço. In questo tentativo panafricano di risolvere un conflitto africano, la Cirlg ha tenuto due mini vertici, uno a gennaio e un altro ad aprile, con un esito che sulla carta è apparso incoraggiante.
Dai risultati delle consultazioni politico-diplomatiche condotte dall’Angola sulla situazione politica e di sicurezza nella Repubblica Centrafricana, viene comunicato che l’iniziativa ha “guidato i principali gruppi armati ad abbandonare la lotta armata e ad aderire al programma di disarmo, smobilitazione e reinserimento”. I capi di Stato e di governo della Cirgl “hanno accolto con favore i risultati ottenuti e hanno incaricato il governo della Repubblica Centrafricana di attuare le conclusioni (…) attraverso un cessate il fuoco che consentirà la creazione di un clima favorevole alla pace e alla riconciliazione nazionale”. I leader esortano i gruppi armati – senza però precisare quali abbiano aderito – a non compiere azioni che mettano a repentaglio il cessate il fuoco, si legge nella dichiarazione conclusiva del vertice di Luanda del 20 aprile scorso. “L’opposizione armata in Repubblica Centrafricana accetta di abbandonare la guerra”, scriveva infatti l’indomani quotidiano Jornal de Angola, senza poter precisare quali gruppi ribelli avevano effettivamente accettato la mediazione.
Molto più drastico, forse contrariato dall’iniziativa regionale, l’ambasciatore della Russia in Repubblica Centrafricana, Vladimir Titorenko, ha detto con chiarezza di respingere “gli sforzi dei Paesi vicini che tentano di imporre un dialogo con ribelli e individui come il signor (François) Bozizé”. In un’intervista a Rfi lo scorso marzo, il diplomatico aveva affermato che non ci può essere dialogo con i criminali. Bozizé, che ha ufficialmente accettato di prendere la guida della Cpc “deve essere arrestato e processato dalle leggi di questo Paese, o forse dalla Corte penale internazionale all’Aja”. Titorenko ha precisato che Mosca non è contraria a un dialogo, a patto di definire con chi dialogare, e che non sia la Cpc di Bozizé, che ha tentato di rovesciare le autorità di Bangui. Tale posizione, afferma ancora Titorenko, è allineata su quella delle autorità centrafricane.
La Russia è diventata alleata di primo piano del Centrafrica del presidente Faustin Archange Touadera, in primis circa la sicurezza nazionale. Il Centrafrica è ufficialmente sotto embargo sulle armi imposto a dicembre 2013 in piena crisi politico-militare successiva al golpe armato guidato dall’alleanza Seleka contro l’ex presidente Bozizé. Nonostante varie iniziative di pace, un periodo di transizione e le elezioni nel 2016, le sanzioni sono tuttora in vigore ma alla quindicina di milizie non governative (oltre ai banditi comuni) che controllano o controllavano fino a poco tempo fa i tre quarti del territorio, le armi non sono mai mancate. Contrariamente all’esercito regolare, fino a poco tempo fa quasi inesistente e privo di risorse. Difficile, in questa situazione, mostrare i muscoli davanti a un’orda di gruppi ribelli non disposti a cedere terreno.
È proprio in quel contesto che i russi hanno fatto il loro ingresso nello scenario centrafricano. Nel febbraio 2016, Touadera fu eletto e la Francia decise di ritirare la missione militare Sangaris, mandata in extremis a dicembre 2013 allorché dilagavano le violenze. Presa da nuove crisi, in particolare nel Sahel, Parigi si disimpegnò lasciando una porta aperta. Propose al Consiglio di sicurezza dell’Onu di mandare al neo esercito di Bangui armi recuperate dalla pirateria in Somalia. Al Consiglio, Mosca sollevò un’obiezione giuridica, che venne accolta. La Francia chiese allora a Touadera di mediare, pensando di ottenere un ammorbidimento della posizione russa. Il presidente fu così convincente che ottenne molto di più: il coinvolgimento diretto di Mosca a fianco delle forze armate, con istruttori, mezzi (armi e blindati di seconda mano), consiglieri e guardia presidenziale.
“La Russia è entrata per opportunismo, senza una reale strategia se non quella di consolidare la propria presenza in Africa, dove ha solidi legami in aree ben più strategiche come in Algeria, in Egitto, in Angola, in Zimbabwe, in Sudafrica, in Namibia… Il peso del Centrafrica è in realtà irrisorio. Tuttavia, poteva servire a ricostruire una rete africana, già esistente prima degli anni ‘90, ma che per vari motivi era stata messa da parte, ed essere una porta verso altri scenari”, spiegava qualche tempo fa a Rfi Arnaud Dubien, ricercatore e membro dell’Osservatorio franco-russo. Nella stessa trasmissione, lo specialista di questioni sub-sahariane Roland Marchal (Centro studi e ricerche internazionali, Ceri) aggiungeva che Mosca aveva “colto l’opportunità di una cooperazione a basso costo. Allo stesso tempo, aveva ottenuto un ‘bel modo’ di umiliare i francesi”, protagonisti di vari bracci di ferro con i russi sulla scena geopolitica internazionale, come ad esempio in Siria e in Libia.
Intervistato sugli interessi in materia di investimenti russi, Titorenko preferisce ribaltare la domanda, chiarendo che sono i centrafricani a dimostrare interesse per investimenti russi nei settori delle risorse naturali, dell’energia elettrica, delle infrastrutture dei trasporti e nell’agricoltura. L’ottenimento di licenze su siti minerari non è un argomento di cui Bangui vuole parlare con chiarezza, ma sembra che finora non sia iniziato un vero e proprio sfruttamento del sottosuolo e delle sue potenziali riserve da parte delle grandi aziende minerarie russe.
L’altro protettore ufficiale di Bangui è la missione delle Nazioni Unite, nota con l’acronimo Minusca, con la quale le relazioni stanno sperimentando alti e bassi, sia con la maggioranza, che in questi giorni sta mettendo in dubbio un rapporto di ricercatori dell’Onu su presunti violazioni dei diritti umani da parte delle forze armate e degli alleati russi, che con l’opposizione. Lo scorso gennaio, la coalizione dell’opposizione democratica Cod 2020 ha accusato il rappresentante speciale del Segretario generale delle Nazioni Unite in Repubblica Centrafricana, il senegalese Mankeur Ndiaye, allora capo della Minusca, di aver seguito un’agenda professionale personale, lungi dagli interessi del popolo centrafricano e della comunità internazionale. L’opposizione accusa Ndiaye di aver ignorato i suoi avvertimenti su una serie di “disfunzioni” nella preparazione delle elezioni, di aver “mentito” nei suoi rapporti al Segretario generale delle Nazioni unite presentando – falsamente secondo loro – il processo come “trasparente” e “inclusivo”. Lo accusano anche di aver sostenuto “apertamente” la candidatura di Touadéra e di aver “demonizzato” l’opposizione.
La Francia, che non è più partner privilegiato né esclusivo, rimane molto attiva nell’aiuto umanitario e l’aiuto allo sviluppo, in particolare attraverso l’Agence française pour le développment (Afd). Parigi ha circa 300 soldati impegnati in compiti di addestramento per le forze armate nazionali e, se necessario, forniscono supporto alla Minusca. A dicembre, mentre la Cpc dichiarava di voler impedire le elezioni, il presidente Emmanuel Macron ha “condannato i tentativi da parte di gruppi armati e alcuni leader politici, tra cui François Bozizé, di ostacolare l’attuazione degli accordi di pace e lo svolgimento delle elezioni secondo il programma fornito e sostenuto dalla comunità internazionale”. Voci di un possibile coinvolgimento di Parigi nella destabilizzazione di Bangui sono circolate negli ambienti anti-neocolinialismo e neo-panafricanisti. Per l’attivista franco-beninese Kemi Seba, “il mondo intero sa quale ruolo ha svolto la Francia nel creare focolai di tensione nella Repubblica Centrafricana. La Francia ha dato fuoco a questo Paese, che soffre di neocolonialismo e françafrique”. Secondo i più noti media francesi che seguono l’Africa, è attiva in questo periodo una nebulosa di vettori online che propagano teorie del complotto e messaggi anti-francesi, al servizio della Russia.
Più distante dal fronte, lontano dalle diatribe e dalle accuse reciproche, la Cina ha firmato a febbraio con Bangui un accordo commerciale ed economico del valore di 19 milioni di euro. Due settimane prima, Pechino aveva annunciato la cancellazione di un debito del governo centrafricano del valore di 15 milioni. Allo stesso tempo, ha offerto alle forze di sicurezza materiale militare. L’altra grande potenza, primo partner commerciale dell’Africa, non intende allontanarsi dalle posizioni centrafricane che nessuno, sembra, ha intenzione di abbandonare.
A farsi spazio poi è anche il Rwanda. Ai primi di maggio, il capo di stato maggiore delle Forze armate della Repubblica Centrafricana, il generale Zephlin Mamadou, ha guidato un team militare in una visita di lavoro di una settimana in Rwanda. Lo scopo era discutere dell’attuazione dell’accordo di cooperazione in materia di difesa firmato tra il Centrafrica e il Rwanda nell’ottobre 2019. Attualmente il Rwanda è presente con due battaglioni e un ospedale di secondo livello sotto la missione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite. Il Rwanda ha anche schierato un ulteriore battaglione militare nell’ambito dell’accordo bilaterale.
Thierry Vircoulon, ricercatore dell’Istituto francese per le relazioni internazionali (Ifri) vede nel panorama centrafricano un “business conflict model” che molti, troppi, hanno interesse a veder protrarre nel tempo. La nota dell’analista intitolata “Ecosistema dei gruppi armati”, dell’ottobre 2018, era ancora attuale fino a poche settimane fa. “Dal 2013 i gruppi armati sono i veri padroni della Repubblica Centrafricana”, osservava Vircoulon. L’ecosistema dei gruppi armati rimane fondamentalmente aperto per tre ragioni principali. In primo luogo, in uno spazio politico caratterizzato dall’estrema povertà e dall’inversione del contratto sociale, il “business conflict model” dei gruppi armati è molto attraente, persino per gli attori politici a Bangui e per le comunità in cerca di protezione e di mezzi di sussistenza. È un modello autosufficiente poiché l’insicurezza diventa una risorsa economica. In secondo luogo, mentre il rapporto tra governo e gruppi armati è spesso rappresentato in modo antagonista, in realtà contiene aree di cooperazione. Terzo, gli attori che dovrebbero contenere e combattere questo “modello di conflitto affaristico”, ovvero le potenze straniere e le forze di pace, stanno perseguendo una politica che tacitamente o esplicitamente lo incoraggia.
(Céline Camoin)