Amy Cooper è una donna “bianca”. Il 26 maggio scorso passeggia con il suo cane al Central Park a New York, quando un uomo “di colore”, Christian Cooper (che per ironia della sorte porta il suo stesso cognome), le chiede di legare al guinzaglio il cane, come previsto dal regolamento del parco. Quello che succede dopo è divenuto di visibilità pubblica, addirittura un video virale: nella registrazione che intanto Mr. Cooper realizza, si vede la donna terrorizzata chiamare la polizia per denunciare che un afroamericano – ci tiene a precisare – la sta minacciando.
Questioni di razza: il pregiudizio e la paura del “nero”
Quello stesso giorno, lo scrittore e produttore John Blake titola sulla Cnn C’è un’epidemia di cui non potremo mai trovare il vaccino: la paura dell’uomo nero nello spazio pubblico. Tutto questo avveniva il giorno dopo l’omicidio da parte di un agente di polizia “bianco” dell’afroamericano Georges Floyd.
Questa faccenda fa comprendere come purtroppo siano ancora attuali questioni come il razzismo e categorie come quelle di “razza”: concetto ormai desueto e privato anche dalle sue presunte basi scientifiche, a partire dalla scoperta del DNA da parte delle teorie di molti genetisti. Tuttavia, la categorizzazione razziale continua a sopravvivere nella nostra società, così come il pregiudizio nei confronti di persone dalla pelle “nera”, tra i gruppi umani che più nella Storia sono stati discriminati. L’antropologo Marco Aime affronta questi temi nel suo ultimo libro Classificare, separare, escludere. Razzismi e Identità (Einaudi 2020). Intervistato, commenta a tal proposito: «la categoria della razza continua ad esserci per il semplice fatto che semplifica la vita e dà una risposta immediata, senza problematizzare nulla, alle differenze somatiche che esistono tra i vari gruppi umani, su cui abbiamo costruito dei pregiudizi attribuendo a questa presunta razza anche caratteristiche e abitudini culturali. In realtà, i diversi tratti somatici sono dovuti a questioni di adattamento, più che a questioni di tipo genetico. E’ un concetto che continua a essere utile per definire il “Noi”». Nel suo libro, aggiunge: «E’inutile tentare di smontare idee razziste su basi scientifiche: il razzista crede nella sua narrazione e ha bisogno dell’Altro per sentirsi migliore».
Razza e pregiudizio: concetti dunque che semplificano e si rivolgono alla pancia delle persone piuttosto che alle loro intelligenze. E la paura? Se alcune persone percepiscono tale stato d’animo nei confronti delle persone di colore, in particolare negli Usa, non è soltanto a causa della propaganda di criminalizzazione che spesso nella Storia più recente accompagna leggi o atteggiamenti discriminatori quando non aggressivi per legittimarli, come è successo appunto negli Stati Uniti con gli afro-discendenti. Purtroppo, come ci ricorda l’antropologo statunitense Clifford Geertz, «l’uomo è un animale impigliato nelle reti di significati che egli stesso ha tessuto», e i colori fanno parte di queste simbologie culturalmente determinate: così, l’ostilità e il timore del nero affonda le sue radici anche nella simbologia della cultura occidentale, in cui il nero è il colore del lutto, della rabbia, dell’illegale (si pensi al mercato e al lavoro “nero”) e della paura: chi di noi non è cresciuto con il terrore che arrivasse l’Uomo Nero, mentre ci cantavano la più famosa ninna nanna da piccoli? Aggiunge Aime: «c’è poi da dire che il “nero” è stato interiorizzato prima per lo schiavismo e poi per il colonialismo. Nel caso degli Stati Uniti è particolare perché il nero negli Usa è quasi automaticamente schiavo. Come dice James Baldwin i “negri” esistono solo negli Stati Uniti, perché in altre parti sono “neri” o africani. Il concetto di “negro” come lo conosciamo oggi è il prodotto della storia». Domenica 7 giugno, durante le manifestazioni antirazziste dominate dallo slogan del movimento “Black lives matter” a Bristol, la folla ha abbattuto la statua di un trafficante di schiavi inglese; stessa cosa sta accadendo in questi giorni in altre città europee con diverse statue di personalità del periodo coloniale o della tratta di schiavi, simboli di un passato ora più che mai considerato oscuro e imbarazzante. «È più difficile spezzare un atomo che un pregiudizio», disse Albert Einstein: vero, ma forse non impossibile.
Oltre le categorie
Prima ancora che al “criminale”, la persona di pelle nera è stata associata dunque allo “schiavo”. Figura che in parte della letteratura americana ha diffuso invece il cliché opposto del “negro” buono, di cui non aver paura…come il vecchio zio Tom, di cui tutti noi abbiamo letto da bambini: uno degli esempi di come favole e romanzi forgino categorie culturali e alimentino stereotipi fin dalla nostra infanzia. «Eppure, ne La Capanna dello zio Tom si ritrovano segni della paura dell’autrice stessa, una sorta di protezione letteraria, per così dire. O forse Stowe è semplicemente sensibile all’apprensione del lettore. Per esempio, come si può, nel XIX secolo, rendere sicuro l’ingresso nello Spazio Nero? (…) Harriet Beecher Stowe non scrisse La capanna dello zio Tom perché lo leggessero lo stesso zio Tom, la zia Chloe o qualsiasi altro nero. Il pubblico a lei contemporaneo era fatto di bianchi che avevano bisogno della romantizzazione», scrive la scrittrice afroamericana Tony Morrison ne L’origine degli altri (Ed.Frassinelli, 2018). Scrittrice “afroamericana”, appunto. Come sottolinea Aime sempre nel suo ultimo libro, se Bush era un presidente, Obama un presidente “nero”. A nessuno verrebbe in mente di definire Robert De Niro un attore “euro-americano” o Bruce Lee “asio-americano”. Un linguaggio politically correct che però cela un continuo bisogno di categorizzare, e dunque separare, quando si parla di persone dalla pelle scura. In questo senso, è un gioco paradossale che ci coinvolge tutti, compresi coloro che vogliono opporsi al razzismo e che in questo modo finiscono per reiterare una certa categorizzazione razziale: pensiamo per esempio alla campagna e al movimento contro l’odio razziale ripresa ultimamente negli Usa come reazione all’omicidio di George Floyds, “Black lives matter”. Come se le vite dei neri fossero a parte: la difesa dei diritti alla vita, come di qualsiasi altro diritto, sono e devono essere rivendicate come universali.
Oggi coesistono in Italia e ovunque nel mondo vecchi e nuovi tipi di razzismo, da quello più palese ed esplicito che si basa ancora su un concetto di “razza”, a quello più velato della battuta e dell’insinuazione (che il filosofo camerunese Achille Mbembe chiama “nanorazzismo”), o ancora a quello “in buona fede”, dell’atteggiamento pietista o paternalista, che considera i gruppi umani in questione come “poverini”: in ogni caso una forma di inferiorizzazione, in cui l’Altro non è considerato alla pari. Infine, c’è anche chi, come il filosofo spagnolo Fernando Savater citato da Aime nel libro, attacca i sostenitori della diversità da entrambi le parti accusando chi, come per esempio i sostenitori del multiculturalismo, esaltano le specificità culturali di diversi gruppi umani anzichè sostenere che la ricchezza umana risiede proprio nella nostra fondamentale somiglianza, al di là di ogni differenza.
Nuove identità, nuove generazioni
In Italia, difficilmente capita di vedere una persona dalla pelle scura intervistata al fine di avere la sua opinione in base alle sue competenze. Lo denuncia lo stesso scrittore e giornalista italo-senegalese Pap Khouma durante una video-conferenza organizzata da Italia Africa Business Week, a cui ha partecipato anche il direttore editoriale di Africa, Marco Trovato. «Quando ci intervistano ci chiedono innanzitutto da dove veniamo, da quanto tempo siamo in Italia, anzichè concentrarsi sul tema in oggetto, denuncia Khouma».
L’Italia può essersi considerato finora un paese “monoculturale”, come lo definisce Aime: a caratterizzare il nostro Paese sono un’ uniformità di lingua (pur sempre relativa), di cultura e di religione (cristiana cattolica). l’Italia non è né la società creola del Brasile, né il risultato di melting pot di culture e lingue come altri Paesi africani o sudamericani; non vi sono comparsi gli schiavi nel XIX secolo, né gli immigrati africani dal dopoguerra come successo principalmente nelle grande potenze coloniali del tempo, in Francia e in Gran Bretagna, ma anche in altri paesi europei. Tuttavia, a iniziare a far capire il bisogno di una rivoluzione prima di tutto culturale e antropologica nel nostro Paese è stata negli ultimi decenni la comparsa dei migranti, cosa a cui non eravamo abituati, essendo fino a poco tempo prima unicamente noi italiani a emigrare. A questo punto la propaganda di determinati movimenti e partiti politici ha additato come nuova categoria da criminalizzare e da rappresentare come il capro espiatorio della crisi economica e di ogni male sociale quella del “migrante”: nuova etichetta che in realtà appiattisce migliaia di persone dalle provenienze, culture e storie diverse. Così, è iniziata la ciclica paura dell’ “invasione”: nei primi anni Novanta nei confronti degli albanesi, poi dei maghrebini, oggi degli africani e così via. Secondo Aime, la categoria di razza si cela dietro a quello su cui movimenti “localisti” e governi denominati oggi “sovranisti” e “populisti” basano le loro retoriche, ovvero a concetti di “identità culturali”: «di fatto, l’idea di razza cacciata dalla porta è rientrata dalla finestra con maschere nuove, come quella dell’identitarismo» .
Per tali realtà il concetto di identità è rappresentato come fosse un’entità già data, fissa e rigido. Come Aime stesso ci ricorda: «di fatto questa lettura è la negazione della storia, da sempre le culture si sono scambiate, mescolate, meticciate. Oggi si parla di multiculturalismo, ma di fatto si sa già che ogni cultura è già multiculturale, ovvero il prodotto di molti scambi: esattamente come ci siamo scambiati allegramente spermatozoi, ci siamo anche scambiati idee, concetti, parole e significati».
Quale futuro allora per un’Italia che solo ora sta iniziando a de-costruire non solo il concetto di razza, ma che in un contesto di globalizzazione in cui tutti siamo chiamati a confrontarci con diversi modi di pensare e di vivere, e in cui ancor più compaiono nell’arena pubblica e sociale individui che incarnano essi stessi molteplici identità, come figli di immigrati o di coppie miste, deve fare i conti con un concetto di identità fluide, in evoluzione, plurime? Il cambio di paradigma avverrà soprattutto con loro, con le nuove generazioni, di cui fanno parte anche quei tanti giovani e giovanissimi, addirittura bambini, italiani “bianchi”, “neri” e di tutte le sfumature di pelle che hanno partecipato alle manifestazioni antirazziste nelle città italiane il 6 e 7 giugno scorso. La scommessa ancora una volta è nel non categorizzarle, cosa che già si fa quando si parla di “seconde generazioni” o “G2” per designare soggetti che altro non sono che nuovi cittadini: individui che si ritroveranno – e si ritrovano già – tutto il mondo nella propria classe a scuola, anticamera della società. Piccole donne e uomini che non vedranno una persona di colore solo in Tv trattato da presunto criminale o nelle figure del libro sul buon vecchio schiavo dello zio Tom, ma che magari ci parleranno ogni giorno a scuola. E troveranno normale che la pelle di ognuno abbia sfumature diverse: anzi, se facciamo sì da non continuare noi “grandi” a ricreare razze e categorie, non le noteranno neanche.
*Le fotografie sono relative alla manifestazione antirazzista Black Lives Matter a Milano del 7 giugno.
(Testo, foto e video-intervista di Luciana De Michele)