Chi ha paura dei Peul?

di AFRICA
Peul

I Peul, una popolazione pastorale presente un po’ in tutta l’Africa occidentale, sono accusati di fomentare il movimento jihadista nella regione. Non mancano i precedenti storici, ma, come sempre, si diffidi delle generalizzazioni.

È difficile pensare alle lande assolate del Sahel senza l’immagine, resa tremolante dal calore, di una mandria dalle grandi corna che le attraversa lentamente sollevando nuvole di polvere. I Peul (detti anche Fulani o Fulbe e in altri modi ancora) e i loro armenti sono una componente essenziale del paesaggio saheliano. Li si trova dappertutto in Africa occidentale.

“La vacca è il padre dei Peul”, recita un proverbio, mettendo in luce l’importanza di tale animale nella cultura di questi allevatori saheliani. Tutto viene calcolato in vacche, il bestiame è il simbolo della riuscita di un individuo, la sua ricchezza. Come disse il grande intellettuale maliano Amadou Hampâté Bâ: «Le vacche e i loro allevatori peul sono quasi fratelli. Ma, a ben guardare, sono i Peul che sembrano essere stati creati per servire le mandrie e non gli animali per servire ai Peul». La vacca è anche la protagonista della ricchissima letteratura orale di questo popolo, che ne esalta la bellezza con poemi raffinati dove viene chiamata «tortora del paradiso».

Convivenza sostenibile…

Nel Fantang, un poema mitico, la bellezza delle vacche viene addirittura messa a confronto con quella delle donne, le quali, narra il poema, per essere belle devono indossare monili, mentre le vacche «non hanno braccialetti, né collane d’ambra. Ovunque passino, di giorno o di notte, si crea uno spettacolo».

Gli allevatori peul trascorrono lunghi periodi dell’anno in prossimità dei contadini delle regioni saheliane, che coltivano i loro campi in gran parte a miglio e sorgo. Tale convivenza ha dato origine a complessi codici di comportamento per regolare le relazioni tra i due gruppi. Spesso i contadini possiedono alcuni capi di bestiame e li affidano a un Peul, il quale usufruisce del latte e viene inoltre ricompensato con del miglio o altri cereali. Così si rafforza l’alleanza tra i Peul e i contadini. La complementarità tra due modelli di economia diversa si rinnova nello sfruttamento dei pascoli: dopo il raccolto i nomadi possono pascolare le loro mandrie sui campi, fornendo letame, assai ambito dai contadini, che non possiedono altri tipi di fertilizzante.

Opportunismo jihadista

La convivenza tra pastori nomadi e contadini sedentari non è però sempre facile e spesso ha generato conflitti e scontri. A volte le vacche sconfinate venivano sequestrate e liberate dopo il pagamento di un riscatto. Talora il contenzioso degenerava in rissa, ma le cose si risolvevano in modo semplice.

Negli ultimi anni, però, queste diatribe “tradizionali” si sono caricate di nuovi elementi di conflitto, legate non solo ai diversi modelli di vita ma all’intreccio delle questioni locali con l’espansione dell’islam più radicale legato alla guerra jihadista iniziata nel 2012 con il rafforzamento dell’alleanza fra Tuareg indipendentisti e gruppi filo-qaedisti.

L’intervento francese del 2013 ha ricacciato i terroristi nel deserto, ma il progetto jihadista non è certo terminato. Da un lato si è espresso con una serie di attentati nelle principali capitali saheliane, dall’altro si è tradotto in una lenta e strisciante penetrazione, villaggio per villaggio, in particolare nella regione del Mali sud-occidentale abitata dai Dogon. A portare avanti questa invasione silenziosa sono proprio dei Peul.

“Autodifesa” dogon

Tradizionalmente musulmani, già in passato i Peul si erano resi protagonisti di guerre di religione. Nel 1804, l’ondata islamica provocata dal jihad peul lanciato da Ousman dan Fodio modificò la vita di molte popolazioni del Sahel. L’islam imposto diventò una realtà oppressiva e lo stesso avvenne nel 1827 nel corso del successivo jihad di Sheikou Ahmadou.

Oggi l’espansione dell’islam radicale avviene attraverso l’infiltrazione nei villaggi di singoli individui, che iniziano a diffondere le loro tesi integraliste, a convincere (non sempre con le buone) gli abitanti ad allontanare il maestro di scuola, tentando di imporre l’insegnamento religioso.

Le tensioni sono cresciute rapidamente e i tradizionali battibecchi tra pastori e contadini si sono tramutati in qualcosa di più grosso. Ha fatto il giro del mondo la notizia del marzo scorso, di un gruppo di Dogon armati che hanno attaccato i villaggi di Ogossagou e Weingara massacrando 134 Peul, distruggendone le case e uccidendo il bestiame.

Si tratta del gruppo di autodifesa chiamato Dan Nan Ambassagou, creato nel dicembre 2016 dopo un attacco terrorista a villaggi dogon e guidato da Youssouf Toloba. Sembra che il gruppo abbia una quarantina di campi nei territori dogon. In assenza di un intervento dello Stato, questi villageois hanno deciso di difendersi da soli, rendendosi protagonisti di diversi attacchi a civili peul.

Il mistero Amadou Koufa

Dan Nan Ambassagou ha per obiettivo la difesa dei Dogon dagli attacchi jihadisti riconducibili ad Amadou Koufa, predicatore radicale di etnia peul particolarmente attivo nel centro del Paese. Dichiarato morto dalle autorità maliane e francesi, vittima di un raid delle forze speciali francesi, in realtà Amadou Koufa sembra essere sopravvissuto, come dimostrerebbe un video messo in rete da France24 il 28 febbraio 2019. Il predicatore radicale vorrebbe conquistare tutti i Peul dell’Africa occidentale alla causa jihadista.

La situazione del Mali è sempre più complessa, e nonostante la presenza dei caschi blu dell’Onu (Minusma), dei militari francesi dell’Operazione Barkhane e del nuovo corpo tutto africano “Force G5 Sahel”, gli attacchi jihadisti continuano nel Paese. Secondo l’Onu, nel 2018 ce ne sono stati 237, ben undici di più dell’anno precedente. La furia jihadista sembra continuare, anche con volti nuovi. Ai Tuareg protagonisti della prima ora di questa guerra si sono aggiunti alcuni Peul integralisti, e a fare le spese di questo ennesimo conflitto interno africano sono, come sempre, i poveri abitanti dei villaggi, non difesi da uno Stato che è sempre troppo lontano.

(Marco Aime)

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