Dopo una serie di film di gangster ambientati in Sudafrica, ora Teboho Edkins, regista statunitense cresciuto fra Lesotho, Sudafrica, Francia e Germania, arriva al suo primo lungometraggio, Days of Cannibalism. Coprodotto da Francia, Sudafrica e Paesi Bassi, parlato in sesotho, mandarino e inglese, il film promette di godere degli stessi successi dei suoi precedenti lavori proiettati in molti festival e musei, tra cui il Centro Pompidou di Parigi, il Tate Modern di Londra, la South London Gallery, l’Haus der Kulturen der Welt di Berlino e molti altri ancora (i suoi lavori sono stati selezionati in oltre 400 festival e anche acquisiti da diverse collezioni d’arte, pubbliche e private).
La caduta degli dei
Nel suo ultimo film, il regista rivolge la sua attenzione ai canyon aridi del distretto di Thaba-Tseka, nel Lesotho orientale. Il territorio, scarsamente popolato, fa da sfondo a una serie di conflitti che scoppiano tra gli ambiziosi commercianti cinesi, speranzosi di fare fortuna lontano da casa, e i Basotho, tradizionali allevatori di bestiame: nella loro cultura la mucca viene definita “il dio dal naso bagnato”, indice del primato dell’animale in quasi tutti gli aspetti della vita quotidiana. La ricerca si svolge sullo sfondo di un nuovo emergente rapporto Cina-Africa, in uno spazio di frontiera in cui le leggi della società sono in continuo mutamento. L’arrivo dei nuovi migranti economici ha sconvolto l’equilibrio di potere. Vecchie leggi e vecchi dei sono stati messi in discussione. In pratica il film di Teboho affronta il tema della globalizzazione, mettendo in luce come le forze sfrenate del capitalismo mettano in crisi profonda le radici della tradizione di questa etnia costretta ad accettare un’ineluttabile evoluzione. Così è tristissimo vedere come, dopo che il pastore recita una poesia in onore della vacca, l’animale diventa solo un oggetto trattato in una catena di montaggio per ricavarne carne. Come nei suoi precedenti lavori, il regista racconta una realtà con grande sensibilità ed acutezza, cogliendo le emozioni dei suoi protagonisti, il disagio dei contadini “violentati” dalle novità, la solitudine e l’alienazione degli immigrati cinesi, l’attesa degli ex minatori che sperano di essere da loro assunti. Un’atmosfera di violenza è sempre presente, ci si sente costantemente sull’orlo di una tragedia che sta per esplodere. La barriera linguistica costituisce uno dei problemi più gravi, con l’impossibilità di comunicare: un incontro, ma insieme un non incontro. Teboto dice di saper parlare un po’ la lingua dei Basotho, poiché in quella zona è cresciuto e lì è nato suo fratello, ma di non essere riuscito a comunicare direttamente con i cinesi. E invece con i cinesi può scambiare e mail e sms, cosa che non è possibile con i Basotho!
La solitudine dei numeri uno
«All’inizio – dice Edkins – istintivamente tenevo un po’ per i Basotho, pensavo che i cinesi avrebbero preso il sopravvento, come sta accadendo ovunque in Africa. Ma poi ho iniziato a conoscerli, sono davvero persone semplici che provengono da piccole famiglie e partono alla ricerca di fortuna. Sono molto coraggiosi, ma è tutto anche molto triste. Sono persone che passano quattro o cinque anni della loro vita lì prima di tornare a casa e molti, una volta tornati, hanno vari problemi di salute perché, per esempio, bevevano troppo a causa della solitudine. È divertente quando sei con i cinesi e pensi ai Basotho, a come sono e alla loro apparenza, alla loro fisicità. I primi ti sembrano davvero fuori luogo. C’è una sorta di calore umano e di energia che proviene dai Basotho e che invece i cinesi non hanno, nonostante siano loro quelli con il potere economico. Trovo che sia molto interessante». Il regista racconta che l’idea per il film ha preso forma in Cina. «Ero in un hotel dove arrivano africani in viaggio d’affari e le persone che erano lì non erano molto felici, c’era solitudine e anche prostituzione. Credo che le persone che lasciano il loro Paese per andare a fare soldi altrove tendano ad alienarsi. Per cui c’è una certa tristezza o malinconia come quella che ho visto in questo hotel e nei cinesi nel Lesotho».
Le regole del cannibale
Uno dei momenti più emozionanti dei film è quello della rapina: «Quella volta ci siamo dati appuntamento al pomeriggio, poco prima che iniziasse la finale della Coppa del Mondo del 2018, che mi pare iniziasse alle cinque. Siamo andati lì verso le quattro e mezza per salutarli, pensando che magari avremmo potuto riprenderli mentre guardavano la finale, magari passando un momento di compagnia e con un po’ di emotività. Quando siamo arrivati al negozio ci siamo resi conto che non avrebbero guardato la finale ma che avrebbero lavorato come al solito. Proprio quando eravamo sul punto di salutarli, siamo stati attaccati tutti quanti. Ho ancora una cicatrice. Sono stato colpito con una pistola, c’era sangue ovunque ed eravamo stati legati. Era il panico, ci hanno rubato le camere, hanno rotto alcune cose ma alla fine stavamo tutti bene. C’era una sorta di cameratismo con i cinesi in quel momento, abbiamo condiviso la loro vulnerabilità. E io sono stato felice, ho avuto il momento che volevo, la scena che pregavo di avere. Fino a quel momento non era accaduto nulla e poi c’è stato questo. Credo che quell’attacco fosse essenzialmente una questione di denaro perché i cinesi sono quelli ricchi, quelli che fanno soldi. Per cui non si è trattato di una questione razziale ma economica e concentrata sui cinesi anche perché sanno che loro sono molto più vulnerabili perché isolati. La polizia non li aiuta granché e quindi diventano una preda facile, vengono sempre derubati». Così, mentre le vecchie strutture cominciano a disintegrarsi, una regola si afferma al di sopra di tutte le altre: mangiare o essere mangiati.
(Annamaria Gallone, autorice dell’articolo, sarà relatrice del seminario, organizzato dalla rivista Africa, “Schermi d’Africa”. Per info e prenotazioni, clicca qui)