È ancora molto raro poter vedere film africani sui canali televisivi ed è scandaloso, visto che molti sono opere d’arte fruibili a livello universale, ma così è. Una felice eccezione è rappresentata da Atlantique, nel palinsesto di Netflix. La regista-sceneggiatrice è Mati Diop, senegalese, al suo esordio alla regia di un lungometraggio, in concorso per la Palma d’oro al Festival di Cannes 2019, prima donna africana ad essere selezionata in competizione ufficiale e vincitrice del Grand Prix Speciale della Giuria. Mati è figlia d’arte, nipote del grandissimo regista Djibril Diop Mambéty e figlia del musicista Wasis Diop, conosciuta soprattutto per la sua carriera di attrice. Dieci anni dopo il suo corto con lo stesso titolo, passata dietro la macchina da presa ha accettato sfide audaci che hanno diviso pubblico e critica.
Il grande protagonista del suo film è l’oceano, sul quale lo sguardo della regista si ferma a lungo, ripetitivamente, incantato dal suo fascino, dalla sua luce, dal suo continuo mutare. Atlantique è un film misterioso, sfaccettato, ricco, forse troppo ricco, di tante vicende e scelte stilistiche che si intrecciano. All’inizio la vicenda si svolge in un’atmosfera abbastanza leggera, per poi cambiare improvvisamente scegliendo una chiave mistica, spirituale, a tratti ermetica.
Al centro, la storia d’amore di Suleimane, un giovane muratore, e di Ada, una diciassettenne nata in una famiglia musulmana legata alla tradizione. I due si devono incontrare di nascosto, sulla spiaggia, ma entrambi nascondono un segreto: la ragazza è stata promessa in sposa a Omar, un uomo ricco che lei non ama e da cui non è amata, utile soltanto a darle una vita più agiata, mentre lui progetta di partire su una imbarcazione di fortuna per arrivare in Spagna, provato anche lui dal bisogno. Da mesi, infatti, a lui e ai suoi compagni che lavorano a uno smisurato grattacielo, non viene pagato lo stipendio: la megalopoli in cui vivono è una delle tante in Africa a subire un rapido sviluppo capitalistico soffocante e spietato.
Uno degli spunti originali del film è proprio quello di raccontare la necessità da cui nasce un’emigrazione ineluttabile, piuttosto che la tragedia degli immigrati giunti in Europa. Suleimane e i suoi compagni partono all’improvviso e di loro non si sa più nulla. Intanto, durante la fastosa festa di nozze di Ada e Omar, divampa un violento incendio. Qualcuno dice di avere intravisto Suleimane, ma Ada non vuole illudersi. E all’improvviso gli operai che lavoravano al grattacielo tornano misteriosamente dalle loro mogli e le trasformano in zombie, poi tornano tutti, morti viventi, fantasmi inquietanti. Ragazze dagli occhi bianchi e sullo sfondo tramonti vermigli, un clima che sfocia nel soprannaturale, nell’horror. La magia oltre il reale. Qui si inserisce anche un elemento poliziesco decisamente di troppo, ma resta questa chiave originalissima per raccontare il disagio-condanna di una generazione di giovani votati all’esilio o alla morte. E questo è forse il merito principale del film: la sua chiave sociale e politica.
Un film coraggioso di una regista con un carattere e una personalità rari, che unisce la ricerca estetica, l’horror, la gioventù senegalese, l’urbanizzazione, la disuguaglianza sociale, l’olocausto in mare, la storia d’amore, la magia oltre il reale. Un film suggestivo e imperfetto, ma a Mati va dato il merito della sperimentazione appassionata.
(Annamaria Gallone)