Cinema | SVAFF, il festival che fa raccontare l’Africa agli africani

di AFRICA
SVAFF

Da poco è terminato il Silicon Valley African Film Festival (SVAFF), svoltosi dal 9 all’11 ottobre 2020. Il Festival vuole celebrare la grande ricchezza del continente africano attraverso lo sguardo dei suoi registi e al tempo stesso denunciare la scarsa produzione in ambito artistico dopo gli oltre 50 anni di dominio postcoloniale. Il suo motto è infatti «L’Africa attraverso l’obiettivo africano» e si propone come una vetrina per registi già affermati e registi emergenti del continente africano il cui lavoro riflette storie vere, sogni e speranze dell’Africa. Ha scritto Danny Glover: «I registi di questo Festival rappresentano una nuova visione, un nuovo paradigma nel Continente». Arrivato all’XI edizione, il Festival si è man mano ingrandito, attirando progressivamente professionisti del cinema, curiosi, amanti dell’Africa. Quest’anno i film invitati sono stati un centinaio, attraverso una scelta non proprio selettiva, ma non importa che siano sempre di alta qualità: è l’Africa che vogliono vedere gli afroamericani e vogliono viverla a modo loro vestendosi con abiti tradizionali, gioielli e acconciature. Proprio come al Pan African Film Festival di Los Angeles, dove ho visto l’inimmaginabile e vissuto esperienze incredibili…

Le spettatrici si aggiravano abbigliate come Semiramide, gli uomini a petto nudo con bellissimi tessuti wax panneggiati sui fianchi. Ovunque era esposto il simbolo di Sankofa, nato nella cultura Akan, quella degli Ashanti, che nel tempo è divenuto simbolo degli africani che vogliono riappropriarsi di se stessi, della propria storia, del proprio futuro. Nella lingua Twi “san” (return), “ko” (go), and “fa” (look, seek e take). Che vuol dire, in sostanza: torna indietro, conosci il tuo passato e poi costruisci il futuro. Ecco perché è caro agli africani della diaspora, soprattutto. Ma anche agli afroamericani, i discendenti degli schiavi. Quelli sradicati dalle proprie radici, quelli strappati dalla propria terra, quelli che le proprie radici e le proprie terre le hanno dimenticate o mai conosciute e vorrebbero ritrovarle. E l’immaginario dell’Africa rivissuto nei loro cuori e nelle loro menti è un conforto, un orgoglio. Come per “Shango”, così si faceva chiamare, un afroamericano nero, altissimo, ascetico, rasato, vestito come un pastore Masai, con tanto di bastone, di tatuaggi e scarificazioni su tutto il corpo, lobo delle orecchie e labbro inferiore deformato da dischi enormi. Aveva provato tutte le iniziazioni nei diversi Paesi africani e… insegnava “Terra Madre” all’UCLA University. Non usava le sedie del cinema, si sedeva solo a terra e percorreva chilometri e chilometri a piedi nudi nel traffico di Los Angeles per non usare alcun mezzo. Divenimmo amici e quando gli chiesi perché tutto questo, mi rispose illuminandosi: “Perché l’Africa è sacra!”

(Annamaria Gallone)

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